Le urla. Il vento. La notte.

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Quella sera tornai a casa prendendo un taxi. Ero troppo stanca per uscire e restare fuori fino all'alba.
Infilai le chiavi nella serratura e, una volta aperta la porta di ingresso, mi ritrovai in una casa completamente silenziosa. Il battito del mio cuore era irregolare e, per calmarmi, cercai di convincermi che quella leggera tachicardia fosse stata causata da James e quello che era appena successo.
Tuttavia, nonostante i suoi occhi non facessero altro che tormentarmi, sentii che in realtà la causa non era quella.
L'incubo che avevo fatto non mi aveva fatta smettere di rivedere quelle scene nella testa e, più ci pensavo e più sentivo i polmoni stringersi nella cassa toracica. Rividi tutte le scene di quella notte. Sentii, oltre alle urla, il vento scompigliarmi i capelli e la notte buia di fronte ai miei occhi.
Respirai e cercai di ricordarmi i consigli che mi aveva dato Jessica: cerca di concentrarti su qualcosa, batti un piede per terra e concentrati sul ritmo da seguire, respira e ricordati di aprire gli occhi, non lo rivivi per davvero è tutto nella tua testa.
È tutto nella mia testa.
Cominciai a concentrarmi sul traffico di New York che si vedeva dall'enorme parete in vetro, ma il cuore accelerò i suoi battiti. Battei i piedi sul pavimento e tentai di seguire un ritmo: 1, 2, 1 e 2.
E cominciai a sudare freddo.
Aprii gli occhi che inconsapevolmente avevo chiuso, e mi concentrai su quella stanza.
Ero lí.
Ero sola.
Ero a New York e non più nel Kansas.
Respirai ancora mentre ficcavo le unghie nei palmi delle mani. Mi concentrai sul dolore e respirai di nuovo mentre il petto bruciava sempre di più.
Salii immediatamente nella mia stanza e mi stesi.
Le urla. Il vento. La notte.
Mi sentii soffocare lentamente e, per un attimo credetti di morire.
Fissai le stelle e cominciai a contarle.
In quel preciso momento sentii vibrare il cellulare sul comodino.
Non avevo le forze di alzarmi, ero praticamente immobilizzata su quel dannato letto. Vibrò altre due volte e, continuando a concentrarmi sul respiro, con mani tremanti cercai di afferrarlo mentre il bruciore allo stomaco aveva deciso di aumentare quell'agonia. Inutile dire che mi scivolò dalle mani e cadde a terra.
Le urla. Il vento. La notte.
Urlai con tutte le forze che avevo nel corpo e piansi, piansi perché ciò che era successo era successo proprio a me, piansi perché agli occhi degli altri ero colpevole, piansi perché Rachel, la mia migliore amica, doveva frequentare il college con me e invece credendo a ciò che dicevano gli altri si era trasferita dall'altro lato degli Stati Uniti, piansi perché stavo facendo dei passi avanti ed ero appena tornata al punto di partenza. Ma soprattutto piansi perché stavo cominciando a legarmi alle persone di quel posto ed io lo avevo provato sulla mia pelle che, se hai qualcosa da perdere, nel momento in cui te la strappano via il dolore rischia di ucciderti.

Per qualche ragione a me ignota quella notte riuscii a dormire, per una sola ora, ma era già un traguardo. Dopo attacchi d'ansia forti come quello avuto quella notte il sonno non era assolutamente contemplato. Alle 5:00 decisi di andare a correre per schiarire le idee e comprare qualcosa che, in momenti simili a quello appena passato, riuscisse a calmarmi. Come una clessidra abbastanza rumorosa da permettermi di concentrarmi sulle onde sonore prodotte da ciascun granello di sabbia. Corsi più veloce che potei e, benché sentissi un dolore forte al fianco, non smisi fino a quando non finii quasi tutto l'ossigeno nei polmoni. Vicino a Central Park mi abbassai con le mani sulle ginocchia per riprendere fiato e, togliendo gli auricolari dalle orecchie, entrai in un negozio dell'usato lì vicino. Rimasi affascinata da ogni piccolo oggetto presente lì dentro. C'erano orologi alti almeno venti centimetri più del mio metro e sessanta e piccoli gufi fatti di bronzo che mi fecero tornare bambina. Da casa mia era facile vedere qualche gufo posarsi di notte e sognavo sempre di poterne accarezzare uno.
《Signorina cosa posso fare per lei?》
L'uomo anziano dietro il bancone mi sorrise dietro a quei suoi occhiali minuti e tondi. Se non fosse per la mancanza della barba lo avrei scambiato per Silente.
《Vorrei un oggetto capace di fare un lieve rumore.》
Dovevo sembrargli una pazza. La mia era una richiesta tutt'altro che solita eppure mi annuì sorridente e sparì dietro una tenda. Circa due minuti dopo posizionò davanti a me una collana con appeso un ciondolo tondo. Che rumore avrebbe potuto fare la collana?
《Non si fermi alle apparenze signorina.》
Rispose alla mia domanda inespressa. Ecco. Era la seconda persona che mi diceva una cosa simile in nemmeno due giorni di distanza. Il vecchio prese il ciondolo e lo aprì rivelando un orologio da taschino la cui lancetta si muoveva con lo scorrere dei secondi. Quasi senza accorgermene lo presi e lo portai all'orecchio.
Tic tac, tic tac.
Era un suono bellissimo e chiusi per un attimo gli occhi scordando di essere dov'ero.
《Lo prendo.》

Una volta tornata a casa trovai cinque dei miei coinquilini agitati. Erano sui divani e sulle poltrone piegati e con le mani sulla faccia.
Che diavolo stava succedendo?
Appena entrai si votarono tutti nella mia direzione. Tracy scoppiò a piangere e venne ad abbracciarmi.
CHE COSA DIAVOLO STAVA SUCCEDENDO.
《Jace ha avuto un incidente. Ha due costole rotte e ha sbattuto fortemente la testa.》
Fu Beth a rispondere alla mia domanda non formulata, mentre singhiozzava sommessamente. Il cuore riprese a battermi forte. Ecco cos'erano quelle numerose vibrazioni del cellulare ieri notte. Ero stata talmente egoista da non vedere né il cellulare né le altre persone in quella casa quando ero uscita per correre.
Non capii più dove fossi, con chi fossi, cosa stesse succedendo.
Feci cadere a terra la busta con dentro l'orologio e non mi sforzai nemmeno di consolare Tracy.
Mi sentivo già distrutta.
Non poteva succedere di nuovo.
Non a Jace.
Non a me.
Perché nel mio profondo sapevo che non avrei sopportato un'altra morte.

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