Capitolo 01_Prima Parte

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Completamente nuda, Deianira si tuffò nella sorgente, lasciandosi avvolgere nel suo fresco abbraccio. I suoi lunghi capelli di un intenso rosso cupo, quasi nero, fluttuarono intorno a lei, simili a lucciole che avessero preso vita. Allargò le braccia abbandonandosi a quella meravigliosa sensazione. Era l'unico luogo al mondo che le trasmettesse quella calma.
Era un rito ormai. Una delle sue piccole gioie. L'illusione che tutto fosse perfetto. Nessun rumore. Nessun suono. L'armonia del silenzio che donava un meraviglioso sogno.
Pace, pensò con malinconia. Sarebbe mai giunta un giorno?
Sott'acqua l'unico ostacolo era il respiro ma, essendo una Naiade lei stessa, avrebbe potuto vivere lì in eterno.
Vi era un'altra ragione per cui amava tanto quel posto. Dirce era stata una ninfa delle sorgenti, Naiade, che si era innamorata di suo padre, incontrato in un giorno di primavera mentre era intenta a riposare sulle rive di quella sorgente.
Quante volte, con aria sognante, Dirce le aveva narrato che mai soleva giacere lì nelle ore più alte del mattino? Il fato glielo aveva mandato e lei gli aveva giurato fedeltà.
Un amore così grande... era destinato a pochi, pensò.
Gli ultimi raggi del sole filtrarono nell'acqua, raggiungendo quasi il fondale ricoperto da uno spesso strato di sabbia e rocce dalle forme più strane, alcune appuntite come lame di spade, altre tonde o piatte ma tutte, indistintamente, brillavano come uno specchio.
Inevitabilmente, l'acqua le restituì il riflesso di una giovane donna dal corpo flessuoso e snello, la pelle lievemente dorata di chi aveva trascorso lunghe ore sotto il sole.
A guardare quei frammenti dall'alto, si aveva come l'impressione che un gigante in preda all'ira avesse afferrato uno specchio e lo avesse scagliato lì, distruggendolo.
Fra la gente di Persea si narrava un'altra leggenda però.
Un tempo quello era il regno delle sirene, creature pericolose quanto vanitose e spietate. Quando non si nutrivano degli umani, avevano trascorso lunghe ore a specchiarsi, intonando melodie letali. Diventate troppo avide e pericolose per i mortali, Zeus le aveva cacciate e respinte negli oceani. Poseidone, adirato, aveva spinto il mare a circondare quella zona della Grecia per fargli dispetto. Persea, da città dell'entroterra, era diventata così penisola ma tuttavia, le sirene avevano trovato un nuovo passatempo con cui trastullarsi. I marinai.
Tutti nella sua polis vi credevano, poiché l'acqua della sorgente aveva un retrogusto leggermente salato nonostante il fiume, attraversando tutta la vallata, si trasformasse in una rigogliosa cascata e morisse lì.
Le sue acque erano dolci ma, dalla cima della montagna, si poteva osservare come ricadesse lungo le pareti rocciose dalla forma curiosamente simile ad una mano. La mano possente di Zeus, pensò Deianira, risalendo. Era così che il suo popolo chiamava quel delizioso laghetto.
Non fece quasi in tempo ad emergere che un rumore catturò la sua attenzione. Deianira agì d'istinto! Con un'abile movimento uscì dall'acqua ed afferrò l'arco ed una delle sue frecce.
Si guardò intorno, scrutando con letale fermezza fra le fronde degli alberi di ginepro, non tralasciando nulla, neppure i cespugli colmi di bacche sparsi ovunque intorno a lei.
Gocce d'acqua scivolarono sulle dolci curve del suo corpo, solleticandola con insistenza, quasi a volerla scongiurare di tornare fra le loro braccia, nella fonte che, placida, attendeva silenziosa.
Per lungo tempo non accadde nulla ma Deianira non cedette, rimase con l'arco levato, pronta a scagliare la letale freccia.
Non si allontanava mai dalla riva. Non posava mai le sue armi dove qualcuno poteva sottrargliele. Già una volta il nemico era giunto sin lì e se non fosse morto, ucciso per sua stessa mano, chissà cosa avrebbe mai fatto?
Quelle belve per metà uomini e per metà cavalli erano pericolosi e infidi. Uno strano caso aveva spinto quel centauro ad una mossa così temeraria poiché di solito non si aggiravano mai da soli. Lo aveva ucciso con un sol colpo del suo pugnale, dritto al cuore.
Lussuria, rifletté in quel momento. L'egoismo di chi non voleva condividere una preziosa fanciulla, aggiunse con sarcasmo.
Un coniglietto spuntò fra i cespugli. Le pupille dell'animaletto si dilatarono, quasi a volersi scusare. Deianira abbassò il suo arco. Le uniche creature al mondo che uccideva erano i centauri. Una razza maledetta che li aveva isolati dal mondo.
Per un attimo l'animaletto rimase immobile, quasi a stento credesse ad una tale fortuna ma infine fuggì via. Anche lui era rimasto terrorizzato dagli occhi della morte? si domandò con ironia.
Il suo arco era elaborato, con intagli preziosi che raffiguravano antiche battaglie. Un dono del divino Efesto grazie al quale poteva colpire un bersaglio a notevole distanza. Tuttavia, aveva un difetto: se non uccideva al primo colpo, provava lo stesso dolore del suo nemico.
La saggezza di sua madre le aveva impedito di rivelarlo, certa che se avessero smesso di temerla, un avido pretendente avrebbe cercato di sottrargliela con l'inganno o peggio, lei sarebbe morta nel tentativo di fermarlo.
In virtù di questo, Dirce aveva cercato di blandirli, sostenendo che Atena le aveva donato la sua forza. Secondo il resto della sua gente, seppur non avessero osato contraddirla, era la favorita di Ade. Da quando lei era morta l'avevano completamente isolata, evitando accuratamente di guardarla.
I suoi occhi erano di un intenso blu notte ma chi aveva assistito ai suoi attacchi asseriva che, poco prima che scoccasse la freccia, le sue pupille si scurissero pericolosamente, lasciando intravedere il ghigno del possente signore degli inferi e, le sue vittime cadessero morte prima ancora di venir colpite dalla freccia.
Poveri sciocchi, pensò. Fosse stato così facile avrebbe già sterminato l'intera razza dei centauri con una semplice occhiata e riportato così la serenità nella valle.
Con aria assente prese i bracciali di pelle. Lunghi fin quasi all'avambraccio, seppur dall'aspetto ingombrante, erano perfetti per nascondervi i pugnali che all'occorrenza poteva tirar fuori in qualsiasi momento.
Deianira afferrò la sua tunica color rosso rubino. L'ultimo dono di sua madre. Di solito le donne greche indossavano il peplo, un rettangolo di stoffa che veniva drappeggiato intorno al corpo sino a formare una sorta di tunica, che lasciava le braccia scoperte, fermato in vita da una cintura o sulla spalla da una fibbia mentre le nobildonne prediligevano una tunica corta al ginocchio con spacco laterale, corredato spesso da uno strascico. In alternativa, vi era il chitone, una stoffa leggera dotata di una cucitura, corta o lunga.
Il suo peplo però non aveva nulla di umano. Era stato tessuto da sua madre che ne aveva scelto personalmente la tonalità. Era una sfumatura complicata da ottenere nel mondo umano che prevedeva l'uso della porpora, costosissima per chiunque, ma Dirce aveva insistito, ignorando il bianco o lo zafferano.
Ogni tunica che aveva era del medesimo colore. Aveva desiderato ardentemente che spiccasse così che ogni centauro, guardandola, pensasse che l'avesse tinta nel sangue nemico e che, pur essendo velenoso, lei ne fosse immune. Dopotutto era stata Deianira stessa a scegliere la via della spada. Insinuare il timore nel cuore dell'avversario tornava a suo vantaggio perché lei, essendo donna, non poteva contare su una mostruosa forza. L'astuzia soltanto l'avrebbe salvata. Una delle sue tante lezioni.
Ormai era una donna, non più una fanciullina, pensò Deianira, ma continuava ad indossarlo seppur fosse diventato così corto da ricordare il chitoniskos, la tunica corta che gli uomini indossavano sotto l'armatura o per andare a caccia. Ma a lei andava bene così, pensò. Poteva muoversi più agilmente.
Con un rapido movimento indossò i sandali e li allacciò sul ginocchio. In ultimo indossò il Thorax, la corazza di suo padre, e ne strinse i lacci fino ad adattarla alle sue forme.
Era stato un uomo incredibilmente alto, con lisci capelli neri, occhi grigi penetranti ed un sorriso che spingeva a credere nell'impossibile.
Si era vantato in segreto con loro soltanto di aver ricevuto la sua armatura e l'arco da Efesto in persona. Quest'ultimo in particolar modo, a differenza di un qualsiasi altro arco di fabbricazione umana, non era solo bello a vedersi; donava una sensazione di leggerezza. Non occorreva usare la forza come negli archi normali e in più di un occasione gli aveva evitato di stancarsi inutilmente, conservando le energie per situazioni dove avrebbe potuto perdere la vita.
Non aveva mai rivelato quale incarico avesse svolto per lui, gli aveva dato la sua parola di mantenere il silenzio e così era stato fino al suo ultimo respiro. Da piccola si era sentita così frustrata per esserne stata tenuta all'oscuro! Più aveva insistito e più lui aveva riso, arruffandole il capo con tenerezza.
Deianira si fermò un momento. Se ne sarebbe mai andata quella sensazione di perdita? Scosse il capo, cercando di allontanare i cupi pensieri.
Una volta cresciuta aveva perso interesse per quel mistero legato alla divinità. Poche cose, ormai, erano rimaste importanti. Come avere qualcosa che la legasse a lui che, per di più, poteva essere passata di padre in figlio perché si adattava magicamente alle forme di chiunque. Nessuna armatura di Persea poteva competere.
Anche volendo, Dolone, l'attuale fabbro del villaggio, non avrebbe mai forgiato nulla per lei. Quell'ottuso omuncolo era così convinto che essere una Naiade la rendesse invincibile! 
Suo padre Dedalo era stato un uomo intelligente e assennato. Un cliente restava tale a prescindere dal suo aspetto e, in virtù di questo, aveva sempre creato oggetti adatti alla sua persona. Gli dei per qualche ragione inspiegabile avevano sottratto il buon senso a quel caprone di suo figlio.
Ormai le armi le sottraeva ai suoi nemici se ne aveva bisogno. Piccoli trofei elaborati che tutti osservavano con astio.
Deianira s'incamminò lungo lo stretto sentiero di montagna. Era ripido, scosceso, ma lei avanzò agilmente. Lo conosceva così bene che avrebbe potuto proseguire ad occhi chiusi.
Le luci del tramonto addolcirono quel tratto di strada, quasi che Apollo fosse in vena romantica quel giorno e poco incline ad andarsene.
Giunta in cima, si fermò ad osservare la valle sottostante. Persea rassomigliava ad una piccola falce di luna, candida e perfetta, stretta nell'amorevole abbraccio del bosco circostante.
La loro polis seppur minuscola, era suddivisa in due parti: la città alta, detta Acropoli, dove vi erano i templi e la sede del governo, e la città bassa, dove viveva la popolazione.
Nella pubblica piazza di quest'ultima vi era ancora fermento, segno che molti commercianti si erano soffermati più del solito.
Il ruggito delle onde catturò la sua attenzione. Quante volte da bambina aveva corso nel bosco, inseguendo quei meravigliosi suoni e con un grido raggiante aveva giocato con le onde, per poi riposare sulle rocce.
Quanto le mancava quella sensazione di libertà...

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