MANUEL

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(Tre anni prima)

"Un po' tutti viviamo in quelle promesse che non manterremo mai."

La guardavo da lontano, mi era sempre piaciuto osservala senza che lei se ne accorgesse.

Quel giorno aveva i capelli che le ricadevano sulle spalle in due trecce spettinate. Sembrava una ragazzina smarrita. Il suo sguardo era assente, come se fosse altrove, distaccata dalla realtà, isolata in un mondo a me estraneo.

Era così bambina in quei vestiti troppo larghi che le ricadevano addosso come se creassero uno scudo sotto il quale si rifugiava.

Non la sopportavo.

Il motivo di quell'antipatia che mi spingeva a tormentarla mi era del tutto oscuro, forse non volevo che si nascondesse dalla vita, volevo che rimanesse vigile, volevo vederla vivere.

Mi ricordava qualcuno che la vita se la stava facendo scivolare tra le dita e quell'immagine non faceva altro che torturarmi. Provavo un gran fastidio nel vedere le persone crogiolarsi nei loro dispiaceri senza fare nulla per uscirne.

Qualcosa l'angosciava, ma non me ne avrebbe mai parlato e forse era meglio così. Preferiva stare per conto suo a immaginare chissà quali avventure, a sfuggire da tutto quello che la spaventava.

Le andai vicino. Volevo sentire la sua voce, vedere i suoi occhi che mi avrebbero guardato con astio, volevo riportarla nel presente. Lei mi avrebbe riconosciuto immediatamente e avrebbe smesso di sembrare fragile, terrorizzata e lontana dal mondo.

Avrebbe finito per odiarmi, ma non mi dispiaceva. In fondo ero abituato a quel sentimento, mi veniva dato da quando ero solo un bambino e non perché ero pestifero o combinavo pasticci, il motivo era mille volte peggiore.

«Sei troppo grande per sognare ad occhi aperti, non credi?» dissi stuzzicandola.

Rimase in silenzio, come se non riuscisse a capire da dove provenisse la mia voce. Poi si girò e mi vide. La sua espressione serena divenne subito glaciale e piena di risentimento.

Non le ero mai stato simpatico, mi divertivo a prenderla di mira, era un gioco che mi distraeva, che mi permetteva di avere il controllo della situazione. Era troppo facile farla arrabbiare.

«Dovresti farti i fatti tuoi, perché continui a tormentarmi?» Si ribellò a quelle accuse cercando di mantenere il controllo.

Non voleva darmi nessuna soddisfazione e quel suo modo di trattarmi spesso finiva per intrigarmi inconsapevolmente.

Sorrisi nel vedere le sue guance da ragazzina colorarsi di rosa. Ed ecco che improvvisamente vedevo il sorgere in lei una forza interiore che non avevo mai visto in nessun'altra ragazza prima d'allora.

Qualcosa che nemmeno lei riusciva a vedere.

Quelle piccole scaramucce tra noi davano un certo senso alle mie giornate, come se avessimo fatto un tacito ma strano accordo, quello di tenderci la mano a vicenda proprio mentre eravamo in caduta libera.

Non le risposi, ero già stanco di ascoltarla, scuoteva in me qualcosa di sepolto e di cui cercavo di ignorare l'esistenza.

L'unica cosa che potevo fare per lei era continuare a essere un estraneo. Perfino essere mia amica le avrebbe causato dei problemi.

«Ehi dove stai andando? Sto parlando con te!» urlò sperando di fermarmi per continuare quella discussione neanche mai iniziata.

Mi allontanai per raggiungere la mia moto parcheggiata a pochi metri di distanza da dove mi trovavo. Accesi il motore e lasciai che le nostre strade si dividessero.

Non mi voltai nemmeno una volta, non mi chiesi cosa avrebbe pensato nel vedermi andare via in quel modo, non mi domandai di come sarebbe stato se fossi rimasto fermo ad ascoltarla mentre mi parlava del suo passato, delle sue ferite, di quella cicatrice che nascondeva sotto una collana che non copriva niente.

Me ne andai dimenticandomi di quella buffa ragazza, come facevo ogni volta che la incontravo.

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