ALLIE (Parte 2)

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Quella scena mi rivoltò lo stomaco.

Ero fermamente convinta che non tutti fossero in grado di amare, per alcuni era la conquista la cosa più importante.

Presi due bicchieri e cominciai a fare qualcosa che non avevo mai fatto, se non per le cene di Natale, quando mi adoperavo nella creazione di nuove bevande o intrugli, come li chiamava mia cugina. Cominciai a mettere nei bicchieri dei succhi di frutta a caso, con qualche pezzo di melone e fragola dentro, per poi ritoccare il tutto con un po' di vodka. Speravo che quello che avevo preparato sarebbe piaciuto senza lamentele.

Dopo pochi minuti avevo già finito. Stavo per portare i bicchieri al tavolo, quando uno dei quattro mi sfuggì dal vassoio e andò a infrangersi sul pavimento, attirando l'attenzione di tutti i clienti.

«Fanculo» esclamai d'impulso.

«Non so chi cavolo sei, ma dovresti fare più attenzione.» Una voce maschile mi riprese immediatamente.

Alzai lo sguardo da terra e vidi due occhi marroni che mi guardavano con astio. Notai immediatamente un lampo di stupore attraversare il volto di quell'uomo, sostituito subito dopo da una maschera imperturbabile.

Lo avevo già incontrato due giorni prima. Era l'uomo del tram, lo stesso uomo che io avevo seguito e poi trattato male, quando aveva cercato di parlare con me. Rimasi a bocca aperta. Pensavo che non potesse andarmi peggio e invece mi sbagliavo.

«Ehm, mi spiace mi è scivolato» provai a scusarmi.

Sperando che la sua rabbia si sarebbe dissolta, se solo mi fossi mostrata affranta.

«Non mi frega niente di quello che hai da dire, io ti pago per lavorare non per essere distratta ragazzina.»

Fingeva di non conoscermi.

«Cosa vuol dire che mi paghi?»

«Sei forse ubriaca? Sono io che gestisco questo posto, non te l' hanno detto?»

«Non né avevo idea» mi giustificai.

In pratica avrei dovuto sopportare quel tizio dispotico per tutta la settimana, non potevo credere alle mie orecchie. Se lo avessi saputo, non avrei mai accettato quell'incarico.

Mi fissava come se fossi un insetto da schiacciare. Mi sentivo veramente di troppo, se mi fossi trovata in un altro contesto, probabilmente lo avrei insultato per quel suo modo di urlarmi contro. Ma non potevo rischiare di farmi licenziare il mio primo giorno di lavoro.

«Pulisco io, tu vai a prendere un po' d'aria fuori, forse riuscirai a schiarirti le idee e la smetterai di fare casini» mi ordinò acido.

Prima di fare come mi aveva detto, notai con la coda dell'occhio il movimento della sua mano destra mentre ripuliva, era molto lento e quasi impacciato. Mi chiesi cosa gli fosse capitato, ma probabilmente anche quel particolare sarebbe rimasto un mistero, quindi me ne andai.

I miei sforzi di tenere a bada il mio lato aggressivo e testardo, stavano per rivelarsi inutili. La parte del mio carattere più combattiva, mi diceva di affrontarlo e dirgli chiaramente cosa pensavo di lui. Dovevo resistere a quell'impulso che mi aveva messo sempre nei guai fin da più tenera età.

Mi appoggiai con la schiena al muro, cercando di rilassarmi.

Fu quello il momento in cui mi venne in mente il suo sorriso, quel sorriso che gli nasceva in viso ogni volta che mi prendeva in giro. Litigavamo spesso per finta, come facevano due fidanzatini all'inizio della loro storia, eravamo l'uno parte dell'altra. Ma forse mi piaceva solo pensarlo, forse vedevo solo quello che volevo vedere.

Così essenziali, così simili, eppure lui alla fine aveva deciso di andarsene lo stesso. E non potendo sopportare di vedere continuamente i posti in cui eravamo stati insieme, avevo scelto di andare via anche io.

Ma non se ne era mai andato, era rimasto fermo nel cuore, ogni minimo dettaglio riportava in vita una diapositiva di noi due.

I suoi passi decisi che mi venivano incontro, il suo prendere i miei fianchi tra le sue mani solo per farmi il solletico. Le sue parole che illuminavano di certezza ogni ora passata con lui.

La certezza che sarebbe sempre rimasto nella mia vita.

"Mi piaci" mi disse un giorno mentre stavamo discutendo.

Era sera e le stelle facevano da cornice ai nostri sogni, ai segreti che ci confidavamo di nascosto. Lontani da tutti, c'eravamo solo noi due e l'oscurità che avvolgeva i nostri volti.

Non volevo che partisse, che di quell'insieme diventassimo due solitudini distanti. Prima di dirmi che non avrebbe cambiato idea, che sarebbe partito il giorno successivo; mi aveva confessato di provare dei sentimenti che andavano oltre l'amicizia.

Sembrava quasi uno scherzo.

Che senso aveva? Come avrei fatto a perdonarglielo? Mi aveva confessato tutto quando ormai era troppo tardi. Non potevo ricambiarlo e anche se avessi potuto, sarebbe stato tutto inutile. Non eravamo fatti per stare insieme, ci conoscevamo troppo bene, ci conoscevamo da così tanto tempo, che una relazione tra noi non era nemmeno tra le opzioni possibili. Era ormai come un fratello per me.

Così invece di dirgli che lo ricambiavo, che lo avrei aspettato, lo avevo rifiutato e c' eravamo detti addio. Lui se ne era andato davvero. Era bastato un attimo e tutto si era spento, di quelle frasi scambiate per promesse non era rimasto più nulla.

Quei gesti d'affetto, le esperienze condivise e quel raccontarsi senza sosta, ormai appartenevano al passato. Ricordi chiusi per sempre in un cassetto che io non avevo più intenzione di riaprire.

In fondo la gente resta solo finché puoi dargli qualcosa, poi se ne va senza guardarsi più indietro. Pensai rassegnata.

Lo odiavo per quella dichiarazione, ma era un odio intriso d'affetto, perché era stato il mio migliore amico, era stato l'unico che mi aveva offerto il suo appoggio quando in casa mia regnava l'inferno. Insomma, era la reazione spontanea di chi ormai aveva smesso di crederci e aveva solo voglia di andare avanti. E io avevo maledettamente bisogno di riuscirci.

Ero stanca di rimuginare su un qualcosa che ormai non esisteva più.

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