~88 dαγs αftεr~

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[Cιαrkε 03.31 α.m.]

Clarke si tirò a sedere madida di sudore. Era aggrovigliata alle coperte scure che fungevano da letto e aveva la gola in fiamme, come se avesse passato ore intere a gridare. Probabilmente era così.

Si era addormentata il pomeriggio precedente verso le sei, o almeno quello era l'orario che segnavano i monitor, ma non aveva avuto un sonno tranquillo: i soliti incubi erano tornati a trovarla.

La ragazza si massaggiò le tempie scostandosi le ciocche corte da davanti al viso. Provò a chiudere gli occhi, ma, appena abbassava le palpebre, i demoni tornavano da lei. Si ricordò di Charlotte, la bambina che aveva assassinato Wells. Lei le aveva detto che l'aveva fatto perché, se avesse ucciso i suoi demoni, loro non l'avrebbero più perseguitata di notte.

Si sbagliava. Ogni notte era un'impresa per Clarke: nuovi incubi si univano a quelli vecchi facendo a gara a chi riuscisse a spaventarla di più. Quella volta aveva sognato i suoi amici dell'Arca che si rifiutavano di tornare sulla Terra e decidevano di abbandonarla. Di dimenticarla.

Clarke si alzò definitivamente infilandosi i pantaloni mimetici che aveva trovato nel magazzino sotterraneo di Becca e corse a prendere un bicchiere d'acqua al piano superiore. Dato che i parametri vitali esterni non sembravano voler andare oltre al 15%, Clarke aveva deciso di rimboccarsi le maniche e sistemare il suo alloggio.

Il piano di sopra era diventata la sua cucina: teneva le bacche e qualche ortaggio, qualche scorta di barrette dei primi giorni, e secchi pieni dell'acqua depurata dall'impianto sotterraneo nel magazzino che aveva svuotato del tutto dagli oggetti di Becca.

Al pian terreno i monitor erano in perenne funzione ed erano l'unica fonte di luce di cui potesse contare. La sala della navicella era diventata la sua camera da letto. Clarke scese le scale masticando uno strano frutto viola dal sapore dolce anche se non aveva idea di come si chiamasse. Entrò nella sua camera e guardò le pareti di metallo: erano ricoperte di schizzi, di disegni, fatti con alcuni oggetti appuntiti e piccoli carboncini che aveva trovato e che ora erano ammassati agli angoli della stanza. Clarke riconobbe il disegno di un tramonto, di una nave spaziale, di boschi e fiumi e tanti, tantissimi volti. Molti non ricordava neanche più quando li avesse disegnati, eppure c'erano: il ritratto che occupava più spazio era quello di Lexa, ed era anche il più bello di tutti. Poi ovviamente c'erano anche sua madre, suo padre, Wells, Finn, Octavia, Indra, Raven, Monty... e tutte le persone che riusciva a ricordare erano lì che la guardavano facendola sentire meno sola.

Ma Clarke era sola.

Si accasciò sul pavimento, tra le coperte, e allungò la mano verso la radio. Smanettò un po' di volte, cercò di girare la parabola in diverse direzioni e poi premette il pulsante verde.

"Bellamy, sono Clarke, se mi senti vuol dire che stai bene e se stai bene vuol dire che ce l'avete fatta...
Qui si sopravvive.
Sono passati 88 giorni dalla vostra partenza e io ho provato ha chiamarti ogni giorno, anche più volte in una sola giornata, ma non mi hai mai risposto. Vorrei che lo facessi, ma mi accontento. Magari mi stai ascoltando in questo stesso momento, chissà". Clarke guardò la radio. Cosa stava facendo? Non le avrebbe mai risposto nessuno. Mai.

Improvvisamente il suo sogno si rintrufolò nella sua mente: allora era vero? L'avevano dimenticata? Erano riusciti ad andare avanti senza di lei?

Fece per spegnere la radio, quando si accorse che nella sua mano sinistra c'era un pugnale con il quale stava tracciando involontariamente dei segni sul pavimento. Le capitava spesso, mentre era persa nei suoi pensieri, di trovarsi a scarabocchiare con la prima cosa che le capitasse per mano. Alzò la mano per osservare quello che aveva inciso e il suo cuore si strinse in una morsa.

Mαγ Wε Mεεt Δgαiη // The100Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora