- 3 -

79 18 5
                                    


La mattina successiva, lunedì venti ottobre, ricordai che non avevi lezioni all'Università e provai a chiamarti a casa. Un primo tentativo, verso le nove, fu vano. Mi rispose un uomo ed io, nel dubbio, riagganciai.

Tre ore dopo, sebbene per me fosse inusuale chiamarti a casa quando c'erano i tuoi, era tale il desiderio di capire cosa stesse accadendo che ti richiamai e, questa volta, a quell' uomo che si porgeva nuovamente come mio interlocutore al telefono, dopo essermi presentato, chiesi cortesemente se eri in casa.

"No, non c'è!", mi rispose con tono perentorio, e il suono sordo di un telefono riattaccato, senza che potessi proferir nuova parola, fu l'inequivocabile segnale che qualcosa di brutto si era verificato.

Tuo padre non era al lavoro come al solito. Certo, poteva essere rimasto a casa perché malato, ma troppo forte era il timore che fosse rimasto lì a evitare che potessimo parlarci ancora. Non sapevo se tu eri in casa e non volevi parlarmi, o se realmente eri uscita. Era mezzogiorno e dopo un'ora avresti dovuto prendere il treno per andare all'università: com'era possibile che non ci fossi? Cosa stava succedendo?

La disperazione avrebbe potuto prendere il sopravvento, ma non volevo permetterglielo. In fondo, ero certo che il pomeriggio avevi lezione. Ero certo che avresti preso il treno per recarti all'Università: forse sarei riuscito a beccarti sul treno del ritorno.

Un solo ostacolo si frapponeva tra la mia speranza e la certezza di vederti: quale treno avresti preso al ritorno?

Vi era un Intercity alle 17.54, un regionale alle 18.02 ed un diretto alle 18.28, e la stazione è talmente grande che era impossibile avere la certezza di vedere in anticipo su quale treno saresti salita, soprattutto se per qualche oscuro mistero la tua volontà, o quella che alla tua era subentrata, aveva deciso di tenerti celata al mio sguardo. Non importava, in qualche modo, ti dovevo vedere.

Ricordo di aver preso l'IC, di averlo attraversato tutto un paio di volte e, non avendoti vista, di essere sceso alla prima fermata utile per salire su quello successivo.

Non dimenticherò mai la sensazione che provai quando, nel vedere poco dopo il regionale arrivare, scorsi il tuo viso e quello di tuo padre guardare insieme fuori dal finestrino.

Un balenio di pensieri mi travolse la mente: mi chiesi se ti stava scortando, se era lì per difenderti da me, se mi sarei dovuto celare al vostro sguardo o far finta di non avervi visti. L'indecisione durò solo pochi secondi. Avere un chiarimento con te era la mia priorità, dovevi sapere che non ero arrabbiato con te, che nulla era mutato nel mio cuore.

Salii su quel treno e mi diressi verso di voi, spinto da una forza più grande di me. È la stessa sensazione di quando si percorre il treno nella direzione opposta a quella di marcia... sei costretto ad arretrare ed è per questo che inevitabilmente ti ritrovi a camminare con maggior vigore e velocità.

La sagoma di tuo padre era ben visibile dall'inizio dello scompartimento e dopo un fugace scambio di sguardi con te fu a lui che con tutta la calma e la cortesia di cui disponevo mi rivolsi, domandandogli:

«Posso rubarle sua figlia per un solo minuto? Ho bisogno di parlarle un attimo». Ricordo il suo primo "no" di risposta a me, e i tre successivi "no" che seguirono il primo.

Questa volta, però, non era più rivolto a me, ma a te, come a volerti convincere che era quella la risposta che dovevi darmi.

Non comprendevo le ragioni di quella improvvisa quanto manifesta ostilità e, come sai, non sono mai stato propenso ad accettare imposizioni. Mi sarei potuto sedere accanto a voi – in fondo era la seconda scortesia che mi faceva nella giornata – ma per non esacerbare ulteriormente la situazione, mi limitai a voltarmi verso di te che, apparendomi ancor più bella con quell'abito insolitamente elegante che indossavi, con tutta la dolcezza che avevi in corpo mi sorridesti, dicendomi «Aspettami all'uscita».

Rincuorato percorsi il resto del vagone e mi fermai davanti alle porte, in un angolo strategico da cui riuscivo ad osservarti e dal quale solo tu eri in grado di vedermi.

Notai fin sa subito la gestualità di tuo padre che progressivamente andava aumentando e vidi i tuoi occhi furtivamente cercare i miei. Povero amore, pensai, chissà "che testa" ti sta facendo.

Altri trenta minuti di viaggio ed arrivammo alla stazione di destinazione. Scesi. Con la coda dell'occhio scorsi tuo padre, era subito dietro di me. Mi fermai.

Scendesti anche tu dal treno chiedendo a tuo padre di allontanarsi un attimo. Si sarà allontanato sì e no di cinque metri. Il suo sguardo era vigile su di noi ma forse non riusciva a sentirci. Forse.

Ricordo che esordii chiedendoti:

«Amore ma che sta succedendo?»

«Ho sofferto troppo sabato sera – mi rispondesti con gli occhi gonfi – e ho capito di non voler star più così male, sentivo il dolore provenirmi dal petto, da dentro. Ti ho dato tutto il mio amore, ma a te non bastava. Forse un'altra ragazza si sarebbe comportata in maniera diversa, avrebbe affrontato i suoi, ma io non ne sono capace.»

«Amore – sussurrai appena ricominciai a respirare – che stai dicendo?»

«Ti sto dicendo che è finita», mi rispondesti, quasi stupendoti di quelle parole che eri riuscita a pronunciare.

«Ma come? Concludi una storia di due anni in 5 minuti, senza un perché o un per come... con tuo padre lì che ci guarda, senza che io possa capire, ti possa spiegare, ti possa abbracciare? Amore, ho un sacco di domande che mi frullano per la testa. Fino a sabato ci sentivamo 3 volte al giorno e ora tu sei qui a dirmi che non posso telefonarti più? Il tuo cellulare è spento; se ti chiamo a casa tuo padre mi sbatte il telefono in faccia, sul treno sei scortata, che novità è questa?»

«Ho chiuso il cellulare in un cassetto e lì resterà per un mese. Quanto ai miei ho chiesto io il loro aiuto per dimenticarti. Ti ho dato tutto il mio amore ma a te non bastava mai.»

«Amore, ma cosa stai dicendo?», ti chiesi cercando di capire, «Tu sei innamorata di me, non è vero?»

«Sono innamorata della persona sbagliata, hanno ragione i miei, sei la persona sbagliata per me, comunque senti, ora devo andare, c'è mio padre che mi aspetta.»

«Amore, e io cosa faccio? Mi lasci qui senza speranza, senza un perché, ti prego accendi almeno il cellulare affinché io possa scriverti.»

«No, mi farebbe troppo male sentirti e vederti»

«Amore, hai ancora la mia collanina al collo? Fammi sentire» ti chiesi mentre inconsapevolmente avvicinai la mano quasi per accertarmene. Era il mio regalo per il nostro primo Natale: un solitario in oro bianco – "un diamante è per sempre" diceva uno spot televisivo – che tu portavi sempre vicino al tuo cuore a testimonianza del nostro reciproco impegno.

«No, non l'ho più – mi rispondesti indietreggiando impercettibilmente – tutti i tuoi regali sono stati riposti in una scatola, e la scatola l'ho messa via.»

«Amore, sai che così non ce la faccio. Mia nonna non sta bene. Per questo motivo sabato ero particolarmente nervoso. Non volevo dirtelo per evitare di farti sentire ulteriormente in dovere di venire al matrimonio con me. Non volevo tu fossi sottoposta ad ulteriori pressioni. Amore, sta male, e non posso, non voglio correre il rischio di perdere due persone care in una settimana. Amore non mi togliere la possibilità di comunicare con te. Finirei col ridurmi a cercarti sui treni, a venire all'Università, Amore ho bisogno di avere la speranza di rivederti per chiarire, è stato tutto un equivoco. Ti prego, non togliermi la speranza.»

«Mi dispiace per tua nonna, potevi dirmelo, non lo sapevo. Penso che quando due persone stano insieme dovrebbero raccontarsi certe cose. Ora devo andare. Ciao.»

E ti vidi andar via, raggiungere tuo padre, camminare con lui qualche metro davanti a me, per poi girarvi insieme per una frazione di secondo, guardandomi con aria interrogativa o forse, pensando fosse quella l'ultima volta che mi avreste visto.



Indefinitamente tuo (frammenti di un amore)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora