2 Capitolo

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Di solito gli uomini quando sono tristi non fanno niente, si limitano a piangere sulla loro situazione. Ma quando si arrabbiano, allora sì  che si danno da fare per cambiare le cose.
                               
                            Malcomx

Pov Will

Combatto da quando avevo undici anni. Ho iniziato facendo kick boxing, ma negli anni successivi ho provato un po' di tutto: kendo, fullcombact, judo.
Il giorno del mio tredicesimo compleanno trovai un sacco da boxe nella mia stanza.
Sapevo che era stato mio padre a regalarmelo, quello che non sapevo era che sarebbe divenuto il mio chiodo fisso.
La boxe mi ha
preso completamente.
Passavo pomeriggi interi a colpire il sacco, con o senza guantoni, fino a non sentire più i muscoli.
Crollavo dalla stanchezza e quando mi riprendevo... ricominciavo.
Non ho mai smesso e forse è l'unica cosa che mi fa sentire vivo.
Alcuni dicono che è rabbia, io voglio pensare che è qualcos'altro.

Carico nuovamente il pugno e questa volta colpisco Jason Baker allo zigomo.
In questo genere di combattimento non si seguono regole: colpisci o incassi fino a quando l'avversario non crolla.
Si vince anche perché l'avversario si arrende, ma è una cosa che accade di rado nei combattenti clandestini.

Baker mi gira attorno come un leone a caccia di selvaggina, ma non gli do mai il tempo di avvicinarsi troppo.
Lui è indubbiamente forte, ha una prestanza fisica notevole, ma è troppo lento: paro quasi tutti i suoi colpi e ne incassa il doppio dei miei.

Preparo un altro pugno e lo colpisco al naso.
Un gancio destro ben assestato.
Grugnisce e si piega in due dal dolore.
Ha una difesa debole e a pochi minuti dall'inizio è stanco e provato.
Gli assesto un altro pugno e questa volta lo colpisco al mento.

Il mio avversario grugnisce affannato cercando di colpirmi senza successo.
"Mi avevano detto che sei un osso duro," impreca "eppure..." fa una pausa "non sembri così quando stai insieme alla brunetta. Melany Wittembergh," precisa leccandosi il labbro spaccato.

Indurisco la mascella al suono di quel nome, l'unico in grado di scombussolarmi, e senza lasciare che aggiunga altro gli assesto una testata in pieno volto.
Poi senza lasciargli il tempo di riprendersi dal dolore, stringo la presa sul suo collo fino a quando non lo sento annaspare in cerca d'aria.
"Non pronunciare più il suo nome," sibilo al suo orecchio "Non pensarla neanche."

"E chi me lo impedirà?" ha il coraggio di controbattere. "Prima che tu te ne renda conto sarà a gambe aperte con me sopra."

Non ci vedo più. Le mani mi prudono, il cuore rischia di implodermi nel petto.

Mel è la mia debolezza. Forse la sola.
Provo una sorta di protezione innata per lei. È una specie di sorella, credo. E non solo nessuno si deve permettere di toccarla, ma nemmeno di nominarla.
Gli assesto una testata che lo fa crollare definitivamente al suolo fra la polvere e il cemento.

Lo scanso ed esco fuori dalla gabbia, raggiungo Wilson col cuore a mille e il sudore che scende lungo la schiena.

Wilson, il mio allenatore mi lancia un'occhiata truce; secondo il suo punto di vista l'ho messo ko troppo in fretta.
"Si può sapere cosa diavolo è successo?"
Tracanno un sorso d'acqua prima di rispondere. "Ha nominato Mel," dico rabbioso continuando a tremare.
Non posso ancora credere di essermi fermato. "E quello che ha detto mi ha mandato fuori di testa."

Wilson scuote il capo e mi guarda dritto negli occhi. "Lo sai che non puoi fare così, vero?" mi mette le mani sulle spalle "qualunque cosa accada non puoi permetterti di perdere il controllo. Nominano tua madre? Te la fai passare. La tua donna? Idem. Niente deve farti deconcentrare e perdere il controllo, quando sei all'interno della gabbia. Devi essere padrone di ogni cosa. Perfino della paura. È chiaro?"

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