"Non dire mai: di quest'acqua io non ne bevo.
Potresti trovarti nella tinozza senza manco sapere come ci sei entrata."Ho conosciuto un uomo molti anni fa, in un tempo che ora faccio veramente fatica a ricordare.
Aveva l'odore di chi era sopravvissuto alla Guerra d'Africa e addosso la fatica per non essere mai riuscito, nonostante gli sforzi, a lavarselo di dosso.
Le mani rugose e pieni di calli di chi la terra non l'aveva solo amata, ma lavorata duramente per anni e gli occhi circondati da una ragnatela increspata di dolci e profonde rughe di saggezza, del colore di una tempesta in arrivo.
Intensi e vibranti come canne al vento.
Gli piaceva guardarmi in silenzio per ore, seduto sotto l'ombra degli ulivi mentre fumava la pipa e osservare i miei gesti che tentavano inutilmente di imitarlo nel prendermi cura delle sue piante.
Mi fissava, con quel mezzo sorriso accennato e mi diceva che ero come lui, che avevo il maestrale dritto nel cuore, che mi scorreva forte dentro le vene.
Che avrei gioito molto e che molto avrei sofferto, ma che la vita era proprio così. Una folata di vento improvvisa.
Era stato lui, quel vecchio uomo, in uno dei suoi racconti centenari a parlarmi per la prima volta di chi fosse l'Accabadora.
Il giorno che per la prima volta ero riuscita ad arrampicarmi sull'albero di fico che da oltre un secolo e mezzo stava al centro di quel piccolo e meraviglioso cortile.
Era una tradizione.
Lo guardavo intimorita, dall'alto dei miei cinque anni e intravedevo i raggi di sole tra le larghe foglie profumate. Difficile.
Ma se ci fossi riuscita allora significava che sì, ero diventata grande abbastanza da conoscere la verità. Sulla mia terra.
Di come in un tempo antico venissero uccisi gli anziani, facendoli precipitare da una rupe, gettati dai loro stessi figli per volere di una legge arcaica e primitiva. Liberarsi dei più deboli senza nessuna pietà e garantire la sopravvivenza della razza. Barbarie, mi diceva, dimenticate nel tempo, per fortuna.
Ma Lei no. Lei era rimasta nei secoli, anche se nessuno ne parlava e si doveva bisbigliare piano il suo nome, perché detto a voce alta, era peccato mortale e ti spettavano minimo trenta Ave Maria e sessanta Pater Noster.
Lei era rimasta, Anima nera e tormentata. La Femmina, quella che si chiamava quando non c'era più nulla da fare.
Arrivava nella notte e faceva ciò che andava fatto in un atto di misericordia che con la crudeltà delle leggi antiche non aveva nulla a che fare.
Arrivava.
Non c'era nessuna tavola apparecchiata per Lei, non doveva essere distratta da niente.
Si faceva carico di quel dolore, di quella sofferenza.
Mangiandoseli.
Senza avere alcuna fame.
Buttando giù bocconi amari insieme a pezzi di cuore e coscienza, liberava le loro anime. E se ne andava così com'era venuta.
Senza una sola parola.
Ma con un peso in più sulle spalle.
Lei, la Femmina, l'Accabadora.Michela Murgia con il suo splendido libro mi ha fatto rivivere quei racconti millenari, trascinandomi all'interno delle sue pagine, con una forza e un'appartenenza alla terra, che non sentivo più da tempo.
La storia è semplice.
Maria viene consegnata all'età di sei anni a Bonaria Urrai, una vecchia sarta nubile, da sua madre, che vuole togliersi un peso e far crescere in modo più dignitoso le altre figlie.
Verrà accolta come "fill'e anima" e per molto tempo vivrà nell'inconsapevolezza, con questa donna nera e taciturna, come una notte senza stelle, imparando silenziosamente a volerle bene.
Poi tutto cambia.
I segreti nascosti dell'animo ruvido della vecchia sarta, bisbigliati, conosciuti da tutto il villaggio, meno che da Maria verranno a galla e lei deciderà di proseguire la sua vita, di girare pagina.
Ma lo si può fare davvero se non si è finito di leggere quella precedente?
Chi lo sa?Quello che so io è che l'odore di questa terra mi ha travolto pagina dopo pagina, facendomi perdere e ritrovare molte volte. La familiarità e la naturalezza con cui l'autrice disegna le linee e i tratti ricreando un quadro evocativo di una bellezza da togliere il fiato, con colori netti di cose note, sentite raccontare o vissute in prima persona.
Una crudezza ruvida che fa percepire tutti i suoni, anche i più piccoli, come se il tempo si fermasse all'infinito.
E così che la si vede apparire, dal buio profondo dell'inchiostro, la Femmina, mentre recita parole in una lingua antica e misteriosa che parla di Dio di Santi in Paradiso e Immacolate Concezioni.
Immersa in quell'odore acre, la vediamo, china sul letto, sfiorare qualcosa, come una dolce carezza materna, in un ultimo indimenticabile, addio.
Sollevare il braccio impugnando il bastone di olivo centenario, fendere l'aria con un colpo secco, senza indugio.
Perché è così che si fa.
Il rumore, che segue, impossibile da dimenticare e che fa chiudere gli occhi agli angeli in cielo, quello di un cranio fracassato, di ossa che si frantumano, in mille, piccoli, pezzettini.
Senza dolore, senza incertezza, la vediamo voltarsi, il volto coperto da un velo nero e il corpo circondato da quel pesante scialle di lana grezza, passarci accanto come se non si fosse accorta della nostra presenza.
Ma non è così.
Lei lo sa.
La Femmina lo sa che noi siamo lì.
E abbiamo visto tutto.
Un dito posato sulle labbra rosse come ciliegie succose.
"Shhhh"Indimenticabile. Almeno per me.
Un abbraccio❤.
Kate
^^
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Talking About - Beyond Words -
PoetryLe parole mi arrivano dritte dalla pancia passando attraverso il cuore e oltrepassando l'anima. Vengono fuori da sole, come un fiume in piena e per me è praticamente impossibile domarle.