psycopath.

1.9K 107 13
                                    

- Quando mio padre morì, temetti che sarei stata punita per la sua morte. Pensai che sarei andata all’inferno o in prigione o che sarei stata colpita da un fulmine se qualcuno avesse scoperto la verità. Per alleviare il senso di colpa mi impegnai come una matta affinché le persone potessero volermi bene. –

Perrie finì di leggere quella frase chiudendo il libro, nonostante fosse solo uno dei primi righi del sesto capitolo, e si appoggiò di spalle al muro, iniziando a pensare e ripensare.

Per alleviare il senso di colpa mi impegnai come una matta affinché le persone potessero volermi bene”.

Non poteva definirsi esattamente ciò che anche la bionda aveva fatto, anzi.

Aveva fatto tutto il contrario, cercando di isolarsi e farsi odiare il più possibile.

Dalla morte dei suoi genitori la ragazza aveva smesso di mangiare, vomitando quei pochi bocconi che era stata costretta a deglutire da sua zia.

Insultava tutti quanti, bestemmiava in qualunque momento della giornata; urlava di notte e spesso non dormiva per paura di ‘risentire quelle voci diaboliche’, come le definiva lei.

Aveva trascorso le prime settimane dopo l’incidente dalla zia materna, ma la situazione era diventata così assurda e incontrollabile che la donna si era trovata costretta a mandarla all’Heartland, piangendo come una fontana e ricevendo un mare di insulti da Perrie.

Aveva trovato spesso la nipote intenta a guardarsi allo specchio, immobile, con lo sguardo perso, per ore intere.

Sembrava appartenere a un altro mondo, appariva sempre confusa e sofferente, era troppo strana e fragile per poter stare con persone che non sapevano nulla dei suoi problemi, delle sue ossessioni.

Forse, da un certo punto di vista, il suo arrivo al centro di rehab era stato un bene: l’aveva aiutata ad aprirsi, a cercare di controllarsi in pubblico e sorridere di più; appariva spesso felice e sembrava che i suoi genitori fossero l’ultimo dei suoi problemi.

Nessuno conosceva la verità, nessuno sapeva cosa faceva Perrie nella sua stanza, da sola, di notte, al buio.

Piangeva sempre, o alternava i pianti a risate isteriche e silenziose.

Prendeva una quantità spropositata di valeriane.

Lesionava le braccia e le cosce con le lamette del rasoio, e osservava soddisfatta il sangue scendere.

Era la sua missione, il suo sfogo, l’unico motivo per cui arrivava a fine giornata senza rischiare di impazzire.

Sfogava la rabbia, la frustrazione, la felicità, sul suo esile corpo.

Sapeva che meritava di soffrire, meritava le sofferenze più acute, più atroci.

Era stata cattiva, ipocrita, era un verme viscido, senza dignità.

Sbatté violentemente la testa al muro, prendendosela tra le mani e urlando quanto più forte la sua voce glielo permettesse.

Vaffanculo andate via! Sono stata io! Prendete me! Vi odio!

Cadde a terra e iniziò a contorcersi, piangendo e gridando allo stesso tempo.

Stesse parole, stesso tono, stesso dolore.

Non sentì nemmeno la porta della sua stanza aprirsi e Jade, accompagnata da un medico, entrare preoccupata e cercarla con lo sguardo.

Perrie!

room 287 || zerrieDove le storie prendono vita. Scoprilo ora