Non mi ricordo come sono uscita dall'azienda. Non mi ricordo se ho preso tutte le mie cose dall'ufficio, non mi ricordo se Bernard mi ha guardata altre volte dopo la comunicazione del licenziamento e non mi ricordo se Roger, chissà per quale motivo ancora in azienda nonostante l'ora tarda, fosse dispiaciuto o ridesse sotto i baffi. È più probabile la seconda, perché io e quell'uomo ci odiamo a vicenda. Come l'acqua e il fuoco, siamo davvero incompatibili. Non che ora importi molto, dato che è improbabile che ci vedremo di nuovo dopo oggi.
Mi ricordo invece benissimo che, appena entrata nella mia Chrysler 300 dopo aver depositato nel bagagliaio lo scatolone mezzo vuoto, sono scoppiata a piangere a dirotto come un bambino a cui la montagnetta di palline di gelato da sopra il cono cade e si spiaccica sull'asfalto, eliminando la merenda del bimbo in un solo attimo. Avrei voluto smettere, ma le lacrime non avevano per niente voglia di fermarsi.
Solo dopo quelli che a me sono sembrati secoli le lacrime hanno smesso di scendere lungo le mie guance – è probabile che sia perché ho finito i liquidi all'interno del mio corpo – e hanno lasciato lo spazio a singhiozzi piccoli e costanti, che mi hanno accompagnato per un altro tempo che mi è parso infinito.
L'ultima volta che ho pianto così tanto è stata all'aeroporto di San Paolo-Congonhas, quel lontano giorno di febbraio di quattro anni fa. Ero talmente sconvolta che, anche se avevo giurato di non lasciarmi più andare a scenate di pianto che avessero a che fare con la mia famiglia, non ero riuscita a fermare le mie emozioni. Mi sentivo tradita dall'unica persona al mondo di cui mi fidassi, ero rimasta completamente da sola a combattere contro l'universo intero che ce l'aveva con me e per quello ero scappata di casa, avevo preso un taxi verso l'aeroporto e avevo comprato un biglietto per il primo volo che partiva verso una destinazione fuori dal Brasile, il più lontano possibile da quella che avevo sempre considerato una prigione.
Non mi interessava cosa avrebbero fatto i miei genitori e i miei fratelli una volta scoperta la mia fuga, perché non li consideravo parte della mia famiglia. La famiglia è quella che ti sostiene, che è sempre disponibile ad aiutarti e a darti consigli, che ti abbraccia quando stai male e spesso è la causa delle tue risate e dei tuoi ricordi migliori. Di sicuro non è quella che ti obbliga a seguire un percorso poco raccomandabile contro la tua volontà e che non ti considera un essere umano che può prendere da solo delle decisioni ma un automa, solo un pezzo di un puzzle molto più grande di te.
La scelta di Parigi è stata semplice. Studiavo francese alle superiori, me la cavavo molto bene, avevo sempre desiderato visitare la città, la Tour Eiffel e il museo del Louvre, e il primo nome della schermata "partenze" che ha attirato la mia attenzione in aeroporto è stato proprio quello della capitale francese. Gran parte dell'equipaggio dell'aereo mi guardava torvo, ero una piccola ragazzina appena maggiorenne che piangeva a dirotto, completamente da sola, ma non fecero domande e si limitarono ad abbozzare un sorriso quando incrociavo i loro sguardi.
Durante tutto il viaggio ho continuato a frignare, perché l'unico pensiero che avevo in testa era Neymar. Quel dannato ragazzo che continuava ad avere il mio cuore. Quel ragazzo che con il mio cuore aveva giocato a calcio e l'aveva lanciato contro un vetro per vedere in quanti pezzi si sarebbe rotto. Eppure non riuscivo a non amarlo. Era più forte di me, l'avrei preso a pugni, avrei distrutto il sorriso che alloggiava perennemente sulle sue labbra, ma continuavo a pensare che l'avrei voluto lì al mio fianco, al posto della signora di mezza età che russava facendo più rumore di un martello pneumatico. Avrei voluto visitare la città dell'amore con lui, passeggiare sulla riva della Senna mano nella mano ed esaurirlo a forza di vedere musei ed opere d'arte.
Dicono che l'opposto dell'amore è l'odio, ma è la bugia più grande dell'umanità. L'amore e l'odio sono complementari, lo garantisco io. Da quel giorno in Brasile ho odiato Neymar tanto quanto l'ho continuato ad amare. Lo vedevo dappertutto a Parigi, anche se l'avrei solo preso a calci nei gioielli fino a vederlo piegato in due dal dolore, per provocargli lo stesso male che lui aveva fatto a me.
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Euphoria {Neymar}
FanfictionSan Paolo, 2013. Rayane prende un volo intercontinentale verso la sconosciuta Europa, alle spalle un'adolescenza da accantonare e davanti a sé un nuovo, libero e affascinante mondo. Parigi, 2017. Rayane esce di fretta dalla sede Renault per andare a...