Tornare per Andare

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Conoscevo i ritmi della White Dove fin troppo bene, all'alba del primo giorno d'estate m'incamminai a piedi fino al promontorio dove sapevo sarebbe passato il bus del collegio.
Avevo passato mesi nella convinzione che tornare mi avrebbe riportata indietro, che mi avrebbe fatto provare antiche sensazioni e che mi sarei sentita ancora una volta in pericolo. Invece, nel mio abito rosso fuoco, con le mie scarpe alte e lucide, il cappello reclinato, i capelli acconciati alla francese sulle spalle e il trucco elegante, sentivo di essere, ed ero, una persona nuova.
Mi sedetti sulla pachina all'ombra di un grosso albero e attesi, senza fretta, senza paura, senza la foga dell'adolescenza o l'irrequietezza di chi ha troppi timori e poche certezze.
Quando il rumore del bus si fece vicino una leggera emozione mi corse lungo la schiena, stavo per riprendermi Pauline e, forse, avrei rivisto Mary Rose.

Mi sollevai lisciando la gonna e mi fermai sul sentiero incrociando le braccia dietro la schiena, sullo sfondo limpido del cielo apparve il contorno della vettura, sentì le voci canterine di Yves e Camden, riconobbi la risata di Darla e il bastone di Mrs Grossman che batteva sul metallo per riprenderle. A stento trattenevo il sorriso, non era paura quella che provavo ma gioia, pura, semplice gioia. Per quanto fossi diventata la donna che desideravo, quelle ragazze erano tutta la mia vita, erano la mia famiglia. Solo sentire le loro voci aveva il potere di scaldare il mio cuore all'istante. Il bus si fece sempre più vicino, qualcuna forse aveva già intravisto la mia sagoma sul ciglio della strada perché un paio di teste sporsero all'esterno additandomi da lontano, poi, finalmente, la voce cristallina della mia Lin.
<< EDITH!>>
Il mio nome gridato nel vento di Fortmay mi fece ridere piegandomi appena.
Eccomi Lin, come promesso.
Pensai, allargando le braccia divertita mentre lei, folle, piccola Pauline, si lanciava fuori senza aspettare nemmeno la frenata e con ampi balzi in pochi secondi si gettò tra le mie braccia facendomi quasi cadere.
<< Sei tornata davvero... sei tornata davvero!>> disse più volte mentre io le ripetevo che una promessa è una promessa.
Poco dopo arrivarono tutte le altre, euforiche, eccitate, emozionate, nessuna mi portava rancore, non mi odiavano, non erano arrabbiate e non sembravano diverse dalle donne che avevo lasciato un anno prima. Mi riempirono di domande, mi mostrarono i numeri del "Le Figarò" e mi dissero che leggevano sempre le mie rubriche, volevano sapere tutto ma proprio tutto di quei mesi e provai a rispondere ad ogni domanda finché non mi resi conto che qualcosa non quadrava.
Perché Mrs Grossman non era lì a sgridarci furiosa intimando a tutte loro di rientrare? Perché non era già al mio fianco ad umiliarmi e rimproverarmi?
Sollevai lo sguardo verso il bus e fu allora che compresi, tristemente, la verità. Helen sedeva quasi compiaciuta accanto a Mary Rose, entrambe ancora all'ombra della vettura. I nostri occhi dopo così tanti mesi si appartennero nuovamente, sul mio dito brillava ancora il suo anello, sul suo anulare invece splendeva una pietra preziosa, grande, invadente, crudele nella sua falsità.
<< Non scenda Helen, stia pure comoda!>> disse Mary con fare sprezzante senza neppure guardarla in volto, eccola, la sua composta vendetta, eccola brillante in abiti costosissimi, con i capelli sollevati in una pettinatura sofisticata, i gioielli pregiati, il trucco elegante, eccola: Mrs Mary Rose Grossman.

<< Rosie...>> dissi andandole incontro.
<< Ciao, Edi...>> rispose lei con quella sua voce soave e delicata, stava bene, anche se mi addolorava ammetterlo, la mia Rosie stava bene. Con un gesto lento della mano mi accarezzai i capelli mostrandole la nostra promessa ancora abbracciata al mio dito. Lei sorrise, come si sorride al ricordo malinconico di qualcosa che ormai è troppo lontano, come si sorride al ricordo dell'adolescenza o alla nostalgia dell'infanzia. Sorrise come se il matrimonio l'avesse cambiata per davvero, ma io conoscevo tutte le maschere del suo volto statuario e dei suoi occhi acquamarina, quel sorriso, imperscrutabile per il mondo, chiaro per me, significava "mi manchi".
<< Hai realizzato i tuoi sogni Edi, siamo tutte orgogliose di te...>>
<< Grazie Rosie, spero che anche tu, tutte voi, stiate bene...>>
<< Molto bene...>> si intromise improvvisamente Helen << La nostra Mary Rose è a capo della White Dove adesso, lo sapevi? Mio fratello ci tiene che la madre di suo figlio abbia una buona posizione sociale!>>
Immancabile come non mai la cattiveria di Helen, il suo odio reiterato nei miei confronti che anche a distanza di mesi non si era assopito.
Guardai Mary senza rancore, con dolcezza, come le avevo giurato, l'amavo troppo per giudicare le sue azioni o per condannare i suoi comportamenti. Era passato poco tempo dall'ultima volta che ci eravamo viste ma sapevo di essere cambiata tanto. Portai lo sguardo al suo ventre e solo allora mi accorsi che era gonfio e teso, in quella pancia che avevo amato e baciato tante volte pulsava una nuova vita, una vita che sarebbe sbocciata di li a pochi mesi e che avrebbe avuto la migliore delle madri. Protesi le braccia e le poggiai senza pudore sul suo futuro nato.
<< Congratulazioni Mary...>>
<< Lo chiamerò Roman!>>
<< E se fosse femmina?>>
<< Tu come la chiameresti? >>
Ci pensai un attimo, poi sorrisi dolcemente accarezzando ancora per qualche istante il suo corpo avvolto dalle vesti pregiate.
<< Hope... la chiamerei Hope!>>

Non la rividi mai più.
Quando il sole calò presi per mano Pauline e lasciammo la White Dove nella mia automobile, Mary Rose dall'alto della finestra ci guardò salutandoci a lungo con un fazzoletto bianco tra le dita sottili. Nella sua stanza, sul truccatoio levigato lasciai andare il suo anello e liberai il mio cuore dall'amore per lei, dimenticarla non sarebbe stato possibile, ma ormai era tempo di lasciar andare l'illusione che quel gioiello la legasse a me come una moglie.

Quello fu davvero l'ultimo momento che trascorsi a Fortmay, non ci sarei ritornata mai più se non con le memorie, nei miei romanzi, e non avrei rivisto nessuna delle mie sorelle. Talvolta mi giunsero lettere, fotografie, aggiornamenti, ma con il tempo tutte smettemmo di scriverci. Lin iniziò l'università a Parigi, durante gli anni della guerra divenne infermiera e visse valorosamente al fianco dei soldati e delle vittime.
Io, invece, girai il mondo con Colette viaggiando in Italia, Inghilterra e persino Germania, inviando report sulla guerra e articoli di cronaca mondiale. In quegli anni conobbi Esther, fotografa e attrice, ci innamorammo a Roma, al sorgere dell'alba dopo una notte trascorsa a bere vino ed inventare sceneggiature per il suo prossimo spettacolo.
Violette non mi abbandonò mai e ogni volta che potevo la raggiungevo a Parigi insieme ad Esther, trascorrevamo settimane intere dimenticandoci di qualsiasi problema, parlando di tutto e vivendo intensamente. Che donna la mia Viol, il destino volle portarla via prima del previsto ma nulla spense il sorriso provocatorio e l'energia sorprendente dal suo volto. Sapeva, Violette, che la sua vita era stata degna d'essere vissuta perché ciò che aveva fatto andava oltre la sua esistenza e sarebbe durato nei secoli. Viol aveva creato la rete.
Renè, Jerome, Io, eravamo solo una goccia nel mare che lei era stata in grado di creare, aveva sollevato coscienze, smosso vite e creato una vera e propria connessione tra le esistenze di moltissime persone. Donne e uomini omosessuali, donne e uomini transessuali, donne abbattute dalla società patriarcale, uomini con sete di rivalsa e voglia di combattere. Ci prese come gatti smarriti e ci riunì in un esercito che al momento giusto fu pronto ad esplodere.
I moti di Stonewall e del '68 furono solo l'inizio. Io ed Esther eravamo ormai adulte ma non smettemmo mai di lottare per quella causa che ci aveva unite in una notte d'agosto romano e che negli anni prese il nome moderno di "attivismo per i diritti della comunità LGBT+", che parola complessa ed imprevedibile. Se solo me lo avessero detto negli anni in cui vivevo alla White Dove avrei stentato a crederci. Ed invece a poco a poco il mondo era davvero cambiato, avevamo dovuto sopportare tanto, lottare troppo, convincere psicologi, psichiatri, religiosi, morali e costumi dei paesi più disparati ma le conquiste erano arrivate, non senza dolore, non senza sofferenza. Eppure, la gioia d'aver vinto su qualche fronte, d'essere diventati comunità, di essere riconoscibili, avere diritti, continuare a lottare senza paura, era la forza inarrestabile che ogni giorno ci diceva di continuare.

Sarebbero tante le date da ricordare, ma quella più importante fu il 2001 in cui finalmente, in Olanda, venne legalizzato il matrimonio tra persone dello stesso sesso.

La mia vita era ormai giunta ai suoi ultimi respiri, me ne stavo a letto o in veranda incapace di muovermi troppo ma con una televisione che rifletteva il mondo e ci comunicava la più bella delle conquiste. Esther più giovane di me di dieci anni pianse di gioia sulla mia spalla e, poche settimane dopo, senza gelosia, rabbia o paura, mi consegnò una lettera. Riconobbi subito la grafia elegante sulla carta pregiata, per quanto fossero passate troppe lune, non avrei mai potuto confonderla.

Settantatrè anni dopo, la mia Mary Rose era tornata da me.

Aprí la lettera con le mie mani anziane e fragili, tra le carte, piene di parole in bella grafia scivolò, ancora perfetto ed immacolato, il nostro anello.

Last summer in FortmayDove le storie prendono vita. Scoprilo ora