Capitolo 2

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La neve scendeva ancora con la stessa intensità iniziando ad aderire al terreno.
Arslan si trovava nel suo alloggio da circa un'ora, stava iniziando a far buio, un po' prima del solito.
Dopo aver cenato con un po' di avanzi si era dedicato interamente alla sua arma: l'aveva pulita, affilata un po' con la cote ed ora era pronto per lucidarla. Si trattava di una spada di buona fattura, non troppo lunga quindi impugnabile facilmente anche con una mano sola, sufficientemente pesante però da risultare fatale una volta calata con forza sullo sventurato di turno. La spada non aveva un nome, non aveva compiuto ancora gesta eroiche tra le mani di Arslan e nemmeno tra quelle del precedente proprietario: l'anziano fabbro della fortezza, Ranhar. "Discendente dei giganti", così lo chiamavano tutti per via della sua stazza enorme, che non accennava a diminuire col passare degli anni. L'aveva forgiata lui stesso quella spada, era la sua preferita e la teneva sempre chiusa nel fodero ed appesa al muro sopra una mensola. Quand'era più piccino Arslan si divertiva a bazzicare nella sua bottega, sempre calda e piena di rumori e di risate. Il vecchio Ranhar si divertiva con lui, gli chiedeva sempre di ravvivare il fuoco della forgia con il soffietto ed Arly, come lo chiamava sempre lui, soffiava a più non posso dentro quel tubo di ferro, fino a farsi male alle guance oppure fino a scottarsi. Dopodiché tra le risate lo allontanava tirandolo per i capelli per poi tornare al lavoro senza mocciosi tra i piedi.

Adesso Arslan non era più un bambino e Ranhar aveva abbandonato questa terra nel sonno, diversi anni prima. Dopo la sua morte i suoi amici furono tutti d'accordo nel lasciare la sua spada prediletta al piccolo Arly, che nel frattempo era diventato grande e mostrava abilità fuori dal comune nel combattimento. Durante tutto questo tempo il ragazzo cercò di capire cosa avesse di tanto speciale quella spada per il suo vecchio amico ma non trovò risposte alle sue domande. Si limitò a sostituire l'impugnatura ormai logora e ammaccata, con una nuova in acciaio foderata in cuoio di colore nero, rivestita da fili di ferro intrecciati, che partivano dalla guardia fino al pomolo, utili a mantenere salda la presa. La tenne sempre ben pulita e affilata.

"Una spada è come una donna per un cavaliere, trattatela con cura e lei non vi tradirà mai." Una delle tante lezioni di maestro Gilford che Arslan era solito ripetere a mente.
Aveva appena riposto la spada nel fodero quando bussarono vigorosamente alla porta. Non si aspettava nessuna visita per quella sera. Quasi per istinto protettivo, nascose l'arma sotto il cuscino. Era molto geloso e poi per quest'oggi non voleva più seccature. Una volta aperta la porta l'atteggiamento scontroso di Arslan cambiò.
«Ah sei tu.»
«Chi credevi che fossi ragazzo?»Disse l'uomo alto e stanco alla sua porta.
«Nessuno, non farci caso.»Rimasero entrambi fermi per qualche istante.
«Bene. Mi fai entrare o devo rimanere qui?»
«No scusami, ecco entra pure.»
Arslan spalancò la porta per permettere il passaggio di Ser Trevor, che per entrare dovette piegare le ginocchia e chinare la testa in avanti di un poco, a mo di inchino oppure come si fa quando si viene congedati dopo aver ricevuto degli ordini. Di ordini Ser Trevor ne aveva ricevuti tanti nella sua vita, trascorsa in gran parte sotto le armi. Veniva da una piccola cittadina del sud abbastanza rinomata nella sua zona per la produzione vinicola. Fin da ragazzo era sempre stato più ben disposto alla consumazione che alla produzione di vino. In aggiuntata alla sua predisposizione naturale al bicchiere, aveva discrete qualità come taccheggiatore, solamente discrete poiché erano più le volte che finiva in manette rispetto alle volte in cui riusciva godersi il bottino. Stanco di dover pagare cauzioni alla guardia cittadina, il padre lo cacciò di casa e lo spedì a lavorare in una delle tante miniere di ferro nei colli dell'ovest, trattenendo il suo compenso naturalmente. Una volta lì, resosi protagonista dell'ennesima schermaglia per un motivo che ora nemmeno ricordava, fu notato da alcuni cavalieri che passavano di lì per delle informazioni.
«Era la prima volta che qualcuno mi apprezzava per come facevo a pugni»ripeteva spesso.«E non appena quei finocchi dall'armatura scintillante mi diedero una spada si accorsero del mio valore e mi presero con loro come scudiero, anche se ero io a insegnare loro come combattere, ahahah!» scherzava sempre, raccontando questa storia davanti ad un fuoco e con un boccale in mano ed ogni volta, come tutte le storie si arricchiva di particolari e dettagli a volte discordanti tra loro, cresceva come un castello di carte, diventato ormai troppo alto e precario. La verità era un'altra, Trevor era molto riconoscente a quei cavalieri che l'avevano preso con se, una volta disse ad Arslan che erano stati loro a metterlo sulla giusta strada e a spegnere quella testa calda che teneva attaccata al collo chissà come.
Ora Trevor non era più un ragazzo della età di Arslan ma un uomo ingrigito sulla soglia dei cinquanta, il fisico slanciato e asciutto però lo rendevano, almeno al primo sguardo, di qualche anno più giovane.
Era da un po' che non sentiva quella storia. Ultimamente si comportava in modo strano, il suo atteggiamento diventava sempre più distante, sempre scuro in volto e freddo con tutti o quasi. Usciva spesso a caccia da solo, munito di arco e frecce, alcune volte ritornava alla fortezza con un paio di conigli appesi a testa in giù per le zampe, nella maggior parte delle occasioni però la sua faretra restava colma di frecce dal piumaggio nero. Non era un granché come cacciatore, quasi imbattibile, invece con la spada in pugno e piedi ben saldi a terra. Più di una volta Arslan ebbe l'impressione che volesse restare solo, perso nel bosco, lontano dai rumori, ma non capiva il perché e non aveva osato chiederlo.
«Lo sai il motivo per cui sono qui, vero ragazzo?»
«Si lo so.» "Quell'idiota di Rodd è andato di nuovo da Gilford a piagnucolare, come al solito." Pensò.
«Hai qualcosa di alcolico qui dentro?»
«Ho solo della birra scura.»
«Quella che proviene dalle cucine?» Chiese Trevor con una smorfia in volto. Come risposta ricevette un cenno di assenso col capo. Allora fece svolazzare la mano in aria come se volesse dire di lasciar perdere.
«Ci vuole un fegato più corroso del mio per chiamare quel piscio scuro birra.» Aggiunse infine.
Ser Trevor tirò indietro una sedia e prese posto a capo tavola, squadrò Arslan dalla testa ai piedi come se stesse cercando qualcosa. Lui era in piedi accanto al letto e non sapeva cosa dire.
«Dai siediti, non mordo mica.»Anche se la voce roca con cui aveva pronunciato quelle parole faceva presagire il contrario, Arslan si sedette accanto a lui ed iniziarono a parlare.
«Sai, quel buffone di Rodd è andato da Gilford a lamentarsi, come fanno i bambini quando gli togli il loro giocattolino. Avresti dovuto vederlo, era imbarazzante, ad un certo punto la sua faccia era diventata rossa, compreso il doppio mento ed il vecchio continuava ad incalzarlo ogni volta che apriva bocca facendogli fare la figura dell'idiota davanti a tutti, più di quanto non lo sia già intendo.»si fermò un istante per riprendere fiato.
«Adoro quel vecchio, la sua lingua è più tagliente di una lama.
Perché non ridi? Guarda che se fossi stato lì ti saresti piegato in due dalle risate.»
«È da un po' che non ti vedo» l'ammonì Arslan.«Ultimamente fai sempre così: sparisci poi ritorni per un po' e poi via di nuovo. C'è qualcosa che non va?»
Un attimo di silenzio si frappose tra i due.
«Niente di cui tu debba preoccuparti ragazzo» disse Trevor tornando serio.«Ora dovremmo andare, Gilford ti sta aspettando per la solita ramanzina.»
Arslan lasciò la spada lì, sotto il cuscino, prese soltanto il mantello.
Uscirono nei corridoi scuri e poi giù per le scale fino all'androne.
Continuava a nevicare, fiocchi biancastri si posavano dolcemente sul terreno ricoprendo l'intero campo di addestramento come una coperta leggera e soffice. Dal basso giungeva un candido bagliore che saliva sulle mura in pietra illuminando quella fortezza tetra. Tutto formava un bel quadro. Soltanto un dettaglio era fuori posto: l'aria.
D'un tratto era diventata fredda, pungente, fastidiosa. Penetrava tra gli strati di cuoio e lana della divisa fino a far rabbrividire la pelle.
I due si fermarono sull'uscio prima di attraversare il campo. Ser Trevor guardò in alto pensieroso. «Su svelto, dobbiamo andare.»

Le Cronache Di Elen  il guerriero di ghiaccioDove le storie prendono vita. Scoprilo ora