Capitolo 13

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Trascorsero tre notti e due giorni a bordo della Isabella, veleggiando lungo le frastagliate coste orientali di Elen. Incontrarono il favore del vento e delle correnti, e così arrivarono ad Isil con diverse ore di anticipo, all'alba di martedì. Dopotutto le parole del capitano Ward sulla sua nave non erano solo chiacchiere.
L'equipaggio spiegò ad Arslan che il capitano cambiava spesso il nome alla sua nave e che Isabella era solo l'ultima delle tante donne che gli avevano rubato il cuore. Quello stesso giorno, Gerard Ward aveva dato ordine ai suoi uomini di cambiare il nome della nave con quello di Vera e di vergarlo con vernice verde come i suoi occhi. Il capitano aveva letteralmente perso la testa per la giovane maga e nemmeno lei sapeva spiegarsi il perché.
Aveva spiegato ad Arslan che il piccolo incantesimo usato nella locanda serviva solo a renderlo più accondiscendente per qualche ora, giusto il tempo di salpare e allontanarsi da Biancaspuma; non desiderava di certo questo risultato.
Comunque sia, un veliero di nome Vera entrò nel porto di Isil: il chiarore dell'alba si riversò sulla capitale, in procinto di svegliarsi, attraverso le centinaia di vele variopinte, appartenenti alle decine e decine di imbarcazioni ormeggiate nell'immensa baia.

Ormeggiata la nave, l'equipaggio aiutò Arslan e i suoi compagni con i cavalli, mentre il capitano Ward tentava per un'ultima volta di convincere Vera a restare a bordo e partire insieme a lui. Liberatasi del capitano, Vera raggiunse gli altri sulla banchina.
«Non mi era mai capitato, deve avere proprio il cervello di una gallina, altrimenti è inspiegabile.»
«Magari è davvero innamorato di te» azzardò Cabe, che per punizione ricevette uno scappellotto sulla testa.
In quei giorni in mare i tre ragazzi avevano stretto amicizia e preso una certa confidenza tra loro. Arslan era più avanti accanto a Macchia, teneva il suo amico per le briglie.
«Non me la immaginavo così puzzolente.»
«Non temere, migliorerà più avanti anche se di poco.»
Superarono a piedi la zona del porto e del mercato del pesce adiacente, tappandosi le narici con una mano mentre l'altra, su consiglio di Vera, teneva ben stretta la scarsella col denaro. Il mercato appariva come un crogiolo di merci e persone provenienti da tutta Elen, un turbinio di odori, colori, prodotti, animali e spezie di ogni tipo. Più avanti si stagliavano le prime abitazioni e locande, e la compravendita proseguiva all'interno: al riparo di una larga galleria si scambiavano le merci più preziose, man mano che si avanzava mutava anche lo stato sociale della clientela, dal popolino all'entrata della galleria, alla borghesia medio alta, ben attenta a non mescolarsi con le genti delle zone più infime e a conservare quella parvenza di autorità guadagnata con tanta fatica.
L'immensa galleria si snodava lungo tutta Isil arrivando fin quasi ai quartieri nobiliari. Sormontata da un soffitto a volta, intervallato da ampie vetrate colorate dalle forme geometriche più stravaganti, offriva scorci davvero pittoreschi su uno spaccato di una grande città piena di contraddizioni e segreti.
Ai lati vi erano delle entrate ad arco, dalle quali non faceva altro che confluire una marea di persone. Vera ne scelse una contrassegnata da un'icona di un serpente.
«Seguitemi, per di qua.»
Sbucarono in una via affollata ai cui lati spuntavano casette dai mattoni rossicci ricoperte da piante rampicanti. Solo voltandosi indietro, Arslan si rese conto dell'altezza della galleria. Vera lì guidò sapientemente fra i vicoli fino ad arrivare dinanzi ad una casa a due piani dalla facciata interamente in pietra e con il tetto in legno. Era una strada secondaria e la folla di un attimo prima era svanita, nell'insegna, sopra la porta scura, campeggiava la scritta "fiori di pesco", accompagnata dall'effige di un bocciolo appena schiuso.
«Mi prendi in giro? Cos'è una vostra fissazione?»
«Dai entra.»
Legarono i cavalli e seguirono Vera all'interno. Vista l'ora il locale era ancora semivuoto: due garzoni stavano ripulendo il pavimento dai resti della nottata appena trascorsa.
«Felix, dai a questi due tutto quello che chiedono e metti pure sul mio conto» disse Vera all'uomo ancora leggermente assonnato dietro al bancone.
«Vera! Sei tornata!» si sentì urlare dal piano di sopra.
«Aghata! Dai vieni, mangerai dopo.» Senza tante spiegazioni trascinò Arslan per un braccio su per le scale.
«Così è lui il ragazzo» affermò Aghata. «Avete avuto problemi?» domando a Vera, guardando la fasciatura sulla fronte di Arslan.
«Si, alcuni, ti devo spiegare.»
«Bene, venite pure.»
La donna, alta e dalla pelle color ebano fece strada lungo un corridoio, sfarzoso e intriso di un'ammaliante profumo, fino alle sue stanze.
Lì Aghata ascoltò silenziosamente e con attenzione il resoconto di Vera sugli ultimi giorni, mentre tolse con maestria i punti dalla tempia di Arslan. Come da suo desiderio non sistemò la cicatrice e per la prima volta gli rivolse direttamente la parola, «So cosa pensi ragazzo e la risposta è no, qui non facciamo quelle cose.»
«Non intendevo mancare di rispetto» rispose lui, chiedendosi come facesse a sapere cosa aveva in testa proprio in quell'istante.
«Aghata ti prego mi hai interrotta sul più bello, c'è dell'altro.»
«Altro? È già un miracolo esserne usciti vivi.»
Vera rovistò nella borsa di Arslan, senza nemmeno togliergliela dalle spalle, e ne tirò fuori il diario.
Lo aprì proprio nelle pagine che loro due avevano letto la prima notte a bordo della nave. Alla vista di quel vortice floreale di parole, tanto disordinato quanto armonico, Aghata strabuzzò gli occhi e per un attimo il suo volto si accese mostrando un bellissimo sorriso.
«Questo è...»
«Autentico.»
«Dove lo avete trovato?»
«A quanto pare apparteneva ad un antenato di Arslan, il suo maestro glielo ha dato prima di lasciare la scuola.»
«Quale antenato con esattezza?»
«Elliot,» rispose Arslan «Elliot Morgan, anche questo l'ho scoperto poco tempo fa e vorrei saperne qualcosa in più, se voi poteste...»
«No, non posso. Anche se forse inizio a farmi un idea di quello che sta accadendo. Ti spiegherà tutto Camilla, se riterrà opportuno farlo, è chiaro.»
«È già qui?» chiese Vera.
«No cara, sono tempi concitati questi, c'è bisogno di lei al palazzo. Le farete visita il prima possibile.»
«Devo portarcelo io?»
«Si, e alla svelta. Magari dopo che si sarà reso presentabile.»
«Hmm..., scusate ma chi è Camilla?» chiese timidamente Arslan.
«È la reggente della confraternita, la nostra guida, il nostro faro, una maga di altissimo livello e di nobile animo; che gli Dei mi fulminino se ti lascio andare da lei così conciato!»
Vera non poté fare a meno di trattenere una sottile risata.
«Lo stesso vale per te, Vera, non profumi certo di rose.»
«Colpa del viaggio in mare» disse lei per giustificarsi.
«Rivolgiti a Felix,» riprese Aghata «ti mostrerà il bagno, e prendi questi.» Aprì un cassetto dal vicino comò e ne tirò fuori un borsellino tintinnante. «C'è una bottega in fondo alla strada, prendi ciò che vuoi e dí che ti mando io.»
«Vi ringrazio non dovevate, ora posso riavere il mio diario?»
«Tranquillo, te lo riporterò io. Ti verrò a cercare nella bottega più tardi.»
Arslan era un po' titubante a lasciare il suo diario in mano ad una sconosciuta, ma si fidava di Vera, e poi vide negli occhi di Aghata una scintilla di curiosità, quella stessa curiosità che provava da bambino nel guardare gli arazzi nelle stanze di Gilford. Quella stessa curiosità che un accademico prova davanti a un testo raro: rispetto, non bramosia o avidità. Perciò acconsentì e scese al piano di sotto.
Si diede una rapida ripulita e non disturbò Cabe che stava ancora bevendo in compagnia dei due garzoni, quindi uscì da solo e percorse la via fino in fondo, fermandosi davanti al "Tessuti di mastro Florent". Gli abiti esposti in vetrina: pacchiani, sfarzosi e a tratti ridicoli non ispiravano ad Arslan molta fiducia, quindi entrò nel locale con molta titubanza. Un campanellino, smosso dalla porta, annunciò la sua entrata.
Un anziano emaciato dai capelli bianchi sparsi in tutte le direzioni lo guardò con sospetto da dietro il bancone, posando gli occhi sulla spada che portava al fianco.
«Non voglio guai, giovane. È vero che siamo in periferia ma è un quartiere tranquillo questo, e poi non c'è nulla da rubare qui.»
«Non sono qui per rubare, mi serve un vestito, qualcosa di presentabile.»
Il vecchio Florent se possibile lo guardò ancora più sbieco di prima.
«Sei serio, giovane?»
«Si, mi manda Aghata.» Indicò con la mano la direzione da cui era venuto.
«In piedi sullo sgabello, giovane, devo prenderti le misure. E metti via quella spada santo cielo.»
Arslan obbedì. Il vecchio sarto, una volta in piedi, era molto più alto di quanto apparisse da dietro al bancone e inforcati gli occhialetti tondi incuteva un certo timore.
«Non immaginavo che madame Aghata scegliesse come ragazzi di piacere dei tipi come te, deve aver trovato qualcuno dai gusti strani, ma chi sono io per giudicare? Alza le braccia.»
«Di cosa parla? Non faccio mica queste cose!»
«Ah no? Infatti mi sembrava strano con quella cicatrice sulla tempia, allora a cosa ti serve un vestito esattamente signor...»
«Arslan,» rispose infastidito «devo incontrare una donna di nome Camilla in un certo palazzo.»
«Oh Dei!» esclamò Florent, gettando via il blocchetto con le misure prese finora. «Potevi dirmelo subito. Vediamo, che genere di vestito vuoi, Arslan?»
«Qualcosa di pratico, che non mi impedisca i movimenti e non dia fastidio alla spada. L'esatto opposto di ciò ha in vetrina, per intenderci.»
«Ho capito, niente pacchianerie. Devi presenziare dinanzi alla signora Camilla con quella spada?»
«Non mi muovo mai senza.»
«Non sei di queste parti, Arslan, vero?»
«Esatto, vengo dal nord, dalla scuola di Morgan.»
«Ah, questo spiega tutto. Pensavo fosse andata in malora quella scuola, vista tutta la gentaglia che hanno spedito lassù.»
«Io ci sono cresciuto lassù.»
«Allora magari sei un bravo ragazzo. Comunque è da un sacco di tempo che non si vedono arrivare più cavalieri dal mantello rosso con la "M" dorata» disse Florent mentre andava nel retrobottega a rovistare tra gli scaffali. «Tu sei qui per il giuramento?»
«Non proprio a dire il vero!» urlò per farsi sentire.
Il vecchio sarto tornò portando con se un fagotto verde tutto impolverato.
«Comunque sia, l'unico vestito adatto per uno di voi è questo qui» lo estrasse e lo accostò al corpo di Arslan. «Con un po' di fortuna dovrebbe andarti bene. Su togliti quegli stracci e provalo.»
Certamente quel capo aveva visto tempi migliori ma conservava ancora tracce di un antico splendore, non troppo diverso a quello delle armature che aveva visto negli arazzi della fortezza e che da bambino sognava di indossare. Anonimo ma funzionale, abbastanza largo da permettergli di indossare anche la maglia di ferro e il vambrace senza intralciare i movimenti e soprattutto la spada.
«Lo acquistai da un mercante orientale diversi anni fa, stando alle sue parole dovrebbe essere un abito da cerimonia tipico di una popolazione di guerrieri nomadi al di là del nostro mare. Se noti bene c'è una tasca nascosta all'altezza del petto, perfetta per un pugnale o un coltello. Semmai dovessi avere qualche ripensamento sull'altare, capisci?»
«È perfetto! Secondo lei sono presentabile?»
«Si, potrebbe andare» disse Florent, malinconico per non dover fare nessuna rammenda o modifica. Il vecchio sarto insistette parecchio per non essere pagato ma alla fine spinto da Arslan, accettò un prezzo simbolico di qualche corona.
Ora ad Arslan restava gran parte del gruzzolo concessogli da Aghata e visto che Vera tardava ad arrivare, pensò di recarsi da un armaiolo, magari ad acquistare uno scudo o un brocchiero: i suoi avevano fatto una brutta fine. Chiese indicazioni a due bambini di passaggio che gli spiegarono il percorso da fare: l'albero sulla destra, l'insegna, la piazza. Seguì alla lettera le istruzioni ma dell'armaiolo neanche l'ombra, i passanti a cui domandava aiuto si scansavano alla vista della spada e della cicatrice, così si ritrovò per un po' a girare in tondo per le stradine della periferia, quando fu attratto da una bancarella che esponeva vecchi libri e altro ciarpame. Passò le dita tra i dorsi sgualciti e rovinati scegliendo con cura un libro da sfogliare, si incuriosì leggendo delle avventure di una spedizione all'interno di una montagna, di una compagnia che doveva distruggere un anello o quella in cui sette regni erano in conflitto fra loro. Assorto dalla lettura, non notò subito il fragore che proveniva da una piazzetta in fondo alla strada. Attratto dalla folla di curiosi, anche lui si ritrovò in fondo alla calca in punta di piedi per cercare di scorgere qualcosa. Quello che vide non gli piacque affatto: al centro della piazza si ergeva un piccolo patibolo. Sul palco, con le mani legate a un palo e il viso rigato di lacrime, stavano inginocchiate due donne. Una giovane, forse più piccola di Arslan, l'altra più grande. In piedi, davanti a tutta la folla, un uomo grasso con un lungo vestito a strisce biancorosse e la barba ispida, muoveva le braccia flaccide ad ampi gesti per catturare l'attenzione su di se.
«Ieri sera miei concittadini, si è verificato un crimine di empia portata nelle nostre tranquille strade! Queste due meretrici,» disse con disprezzo, puntandogli contro un indice accusatore. «si sono macchiate del crimine di pratiche alchemiche! Con il favore della notte! Accanto a voi!»
Ad ogni pausa ad effetto la folla, elargiva segnali di sgomento e sdegno al suo intrattenitore.
«Per questa grave insolenza verranno punite severamente, concittadini miei. Non temete, siamo qui per portare ordine e vegliare su di voi!»
L'uomo, ormai paonazzo in volto e quasi senza fiato, lasciò il centro della scena all'esecutore della sentenza. Un individuo sinistro dal volto scavato e seminascosto da un cappuccio srotolò un frusta e la folla trattenne per un attimo il respiro. Arslan tentò di fare qualcosa per impedire quello che stava per succedere ma un esile mano gli intimò di restare dov'era: Vera alle sue spalle, accompagnata da Cabe, le pregò di non fare sciocchezze.
«Non sono affari nostri. Meglio non avere a che fare con quella gente, credimi.»
«Ha detto che hanno praticato non so che di alchemico. Non dovresti aiutarle? Non sono come te?»
«Ti ho detto che non ci riguarda! Se fossero come me saprebbero come uscire da questa situazione. Probabilmente quella donna si sarà fatta abbindolare da un venditore ed è stata sorpresa mentre preparava un filtro d'amore. Abbiamo cose più importanti da fare.» insistette lei, premendogli contro il petto la sacca col suo diario.
Ci mise un po' a lasciarsi convincere e Cabe dovette quasi trascinarlo via dalla piazza. Mentre si allontanava non poté fare a meno di guardare indietro: il torturatore era all'opera con la sua frusta, la madre si dimenava e urlava disperata. La ragazza, invece, sussultava appena e con gli occhi gonfi di lacrime guardava nella direzione di Arslan.
«Come puoi assistere indifferente a tutto questo?» urlò a Vera non appena lontani.
«Sono tempi difficili per noi questi e non possiamo permetterci di fare passi falsi. Ti arrabbi tanto se quei fanatici religiosi frustano qualcuno per i più futili motivi, ma dov'era la gente quando nemmeno vent'anni fa mettevano a rogo quelli come me? Dall'altro lato della piazza, a vederci bruciare. Ecco dov'era, Arslan, i vostri simili hanno bisogno di questi spettacoli per "sentirsi al sicuro". Fin quando non capita a noi mi sta bene. Adesso andiamo, siamo in ritardo.»
Arslan non ebbe modo di replicare e seguì Vera senza fare storie. Per un attimo le sembrò che fosse tornata quella ragazza scontrosa e saccente conosciuta a Rosvik. Si accorse di non conoscerla veramente, pochi giorni non bastano per conoscere appieno una persona. Poteva dire lo stesso di Cabe? Come la pensava lui? Le uniche persone che conosceva veramente erano morte o lontane da lui. Poteva fare affidamento solo su se stesso. Di lui si fidava.

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⏰ Ultimo aggiornamento: Aug 13, 2020 ⏰

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