Kurapika

817 76 13
                                    

La vita è composta da attese. L'ho realizzato solo dopo che i miei genitori, e con essi tutto il resto della mia famiglia, sono morti. Gli uomini attendono in continuazione e per qualsiasi cosa, convinti che le occasioni piovano dal cielo, aspettando il fantomatico momento giusto. Ma solo perché lo fanno costantemente non significa che lo si debba piacevole.
Io, per esempio, ho sempre odiato attendere le cose. E tra le cose che più ho odiato aspettare, in particolare, mi sento in dovere di citare il lasso di tempo che sprecai nell' appuntamento con lo psicologo scolastico.  Già prima di cominciare avevo lo sguardo fisso sull' orologio sperando di impiegarci il meno possibile. In piedi, in una saletta d'attesa dalle pareti di un fastidioso color cielo, ero pronto a tornare nella mia camera qualora la porta davanti a me non si fosse aperta entro dieci minuti. Non mi ero nemmeno portato qualcuno dei volumi con i quali mi intrattenevo in quel periodo, quindi mi trovavo inequivocabilmente a sprecare il mio tempo. (S)fortunatamente la porta si aprì proprio quando ero in principio di compiere il primo passo che avrebbe dovuto riportarmi nel mio tanto agognato letto. E ancora più coincidenzialmente dalla porta uscì il maniaco dallo sguardo felino che avevo incontrato il primo giorno sul pullman. Il fato palesemente mi odiava. Per un istante restammo entrambi a fissarci, aspettando che l'altro si scostasse per farlo passare. Poi, decisi che non mi sarei abbassato ad un tale livello di infantilità e lo scansai chiudendomi la porta alle spalle. Nella nuova stanza mi accolse un altro colore improponibile, un giallo canarino in una tonalità particolarmente tenue, che i miei coetanei avvrebbero definito molto volgarmente " color piscio".
Inoltre faceva decisamente a pugni con lo stile da manicomio/prigione dell' istituto.
Ad attendermi, dietro la scrivania vi era un uomo azzimato, sulla trentina. Aveva un completo in tinta con la cravatta, i capelli di un colore indefinito e un sorriso perfetto ma, qualcosa in lui mi disturbava. A disagio, mi lasciai catturare dalla poltrona davanti alla sua scrivania, deciso a concludere l'ignobile farsa il più presto possibile.
-Ciao Kurapika, mi chiamo Pariston, ma puoi chiamarmi dottor. Hill- 
Sbuffai. Sapevo già ogni mossa di quella patetica operetta:
Mi avrebbe chiesto della mia storia e della mia famiglia mentre lui avrebbe preso appunti, schizzando improponibili alberi genealogici, rivolgendomi occhiate commiserevoli, aspettandosi di vedermi scoppiare in lacrime ogni volta che nominava la parola "mamma". Ignorava che non c'era tristezza dentro di me, non c'era già più da tempo. A farsi spazio dentro il mio cuore, giorno dopo giorno, era solo un sentimento: rabbia. E non l'avrei ceduta per nessuna ragione al mondo. Non m'importava di quello che dicevano quegli stupidi dottori, a costo anche di rendere la mia vita un inferno mi sarei vendicato.  Contrariamente alle mie aspettative però il dottor. Hill non mi lasciò tempo di parlare.
-So già tutto della tua situazione. Sai, mi obbligano a leggere certi file prima di incontrare un mio paziente, quindi non c'è bisogno che tu parli del tuo passato. Vedo dal tuo viso che la tua voglia di essere qui è pari alla mia, quindi ho una proposta da farti: suicidati, così non dobbiamo disturbarci con questi appuntamenti.-
Per un attimo rimasi a guardarlo aspettando che mi rivelasse che stesse scherzando o che, perlomeno, smettesse di sorridere.
Ma non lo fece.
-Calmati che con quella faccia mi spaventi!- continuò modulando esageratamente il suo tono di voce che però, in qualche modo, riusciva sempre a mantenere una sfumatura allegra.
-Dal mio punto di vista la tua esistenza, ora come ora, è solo uno spreco di soldi dello Stato, sai siccome non ti puoi autosostenere... Uccidendoti adesso non solo sfuggiresti da tutti i tuoi problemi ma aiuteresti anche lo Stato! E se sei preoccupato, invece, che il sottoscritto ne paghi le conseguenze, non ti preoccupare, nessuno può sapere di questa conversazione tra me e te. E teoricamente io sono solo in sostituzione qui quindi...-
Sentii la rabbia avvolgermi e un nodo familiare strigermi la gola. Non mi sarei suicidato. Non mi importava che cosa dicesse quel deficente io dovevo vendicarmi.  Avevo aspettato anni e adesso che ero così vicino al compimento della mia vendetta non avrei gettato tutto al vento per uno psicopatico vestito di giallo. Le parole mi uscirono di bocca un po' troppo velocemente e subito dopo averle pronunciate mi vergognai di essermi mostrato così debole.
-Io non morirò prima di avere ucciso tutti i componenti della brigata fantasma!-
Mi alzai di scatto  e uscii dalla stanza. Non sbattei nemmeno la porta. La mia rabbia la dedicavo solo al Ragno, non avevo tempo da perdere con quel Pariston. Il mio passo spedito venne però interrotto quando mi scontrai contro qualcuno di alto e muscoloso.
-Hey- sorrise il maniaco del bus che aveva atteso che uscissi per tendermi un imboscata.
Evidentemente il mondo c'è l'aveva con me quel giorno. Ignorandolo, cercai di raggirarlo a passo spedito ma mi bloccò.
-Quanta fretta che hai, angioletto- sogghignò lui.
Non potendolo più ignorare lo guardai dritto negli occhi e gli intimai di sparire col tono più freddo e distaccato di cui ero capace. Lui fece il finto offeso -Va bene, va bene se questo è il modo in cui tratti un amico che ti voleva aiutare...
Avrei dovuto lasciar perdere ogni sua provocazione ma, non resistetti:
-Non ho bisogno di alcun aiuto-
Lui sogghignò nuovamente:
-Non hai bisogno nemmeno di un'alleato contro il Ragno?

Asso di piccheDove le storie prendono vita. Scoprilo ora