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Ero già sveglia da qualche minuto, ma rimasi stesa tra il tepore delle coperte finché la sveglia del telefono non fece tremare il comodino con tutta la potenza di cui la vibrazione unita a quel suono, che ormai odiavo, poteva permettersi.

La spensi con malavoglia e scesi giù dal letto, strascicando i piedi sul pavimento freddo e raggiunsi lo specchio posto parallelo alla porta; mi osservai un secondo nella penombra della serranda e fui ben meno che contenta del mio aspetto stanco e con i capelli che fuoriuscivano dall'elastico perso nei meandri delle ciocche porpora.

Raggiunsi la cucina con le gambe che credevano d'esser ancora a letto e le sentivo cedere sotto il mio peso e sotto la frustrazione che provavo; ero così stanca di quella scuola, di quelle persone e di dover mangiare ogni giorno da sola, ripudiata da tutto e tutti nel tavolo accanto al cestino dell'immondizia e il pensiero che avrei passato un altro giorno così, non mi rasserenava affatto.

Mia madre era già in corsa per tutte le stanze cercando, probabilmente, il suo orologio o il suo bracciale, e non si accorse neanche che fossi sveglia, ma la cosa non mi toccava minimamente.

Mi sedetti sulla sedia a peso morto, facendola strusciare rumorosamente sulle piastrelle del pavimento della stanza dove il cibo si preparava e basta, senza essere consumato in compagnia.

"Shh!" implorò quella che tutti chiamavano mia sorella, probabilmente appena tornata da una serata "movimentata" per i miei gusti, ma assolutamente normale per quei suoi 20 anni di cazzeggio.

Il sonno pesantemente presente non mi diede la forza di replicare, quindi tacqui e m'accinsi a cercare qualcosa da mettere nello stomaco vuoto dal pomeriggio precedente, ma non c'era traccia di nulla che non fosse un'arancia con l'immancabile patina di muffa sopra.

"Che merda!" soffiai tornandomene nella mia stanza dai colori che avrebbero fatto girare la testa a chiunque fosse abituato alla vita monotona, tipica della mia famiglia.

Presi i vestiti accartocciati, per via dell'ultima spulciata nei miei cassetti da Violet, mia sorella, e ciò che mi serviva per rendermi presentabile a quelle facce da cazzo di alunni e professori e mi diressi di filato nel bagno che, se avessi tardato qualche minuto, avrei trovato occupato.

A casa Finnigan funzionava così, o ti sbrigavi o ti arrangiavi, per qualunque cosa a partire dalla foto dei biglietti d'auguri natalizi che la mamma si ostinava a mandare a quei parenti, che odiavo quasi più di quelle tre persone con cui ero costretta a dividere la casa, alla vita vera e propria.

Non era una novità per me d'esser rimasta all'infanzia mentre tutti mi trattavano come un adulta solo per quelle due cose che mi erano spuntate sul petto e, ovviamente, non riuscivo a soddisfare le loro pretese, così mi consideravano  la pecora nera della famiglia, quella strana, quella con i capelli tinti e il piercing al naso, il caso perso, insomma.

Mi sbrigai a prepararmi, visto e considerato che mia madre strepitava fuori del bagno; appena tornai nella mia stanza, sgusciando via dallo sguardo deluso di mio padre, guardai subito fuori dalla finestra e ammirai le nuvole che s'accingevano a isolarsi all'orizzonte, lasciando che quello sprazzo di luce illuminasse il cortile dove,nelle aiuole, si rifletteva la luce dei cd pendenti dal davanzale della mia finestra.

Sospirai e guardai l'ora luccicare nello schermo del telefono; le 7.37, avevo ancora tre minuti prima di uscire di casa per non perdere neanche un secondo di quella passeggiata che facevo tutti i giorni tra lo smog e le facce addormentate, che andava affrontata rigorosamente con una sigaretta.

Raccolsi lo zaino e le cose che servivano alla mia sopravvivenza e mi avvicinai alla porta bianca e scrostata dal tempo e dalle generazioni.

"Mamma dopo vado da Loris, non aspettarmi!" mentii spudoratamente, cercando di ricavarmi quelle tre ore di pace che avrei sicuramente passato al "posto".

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