18.0

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Era ancora lievemente giorno, ma fin da quando ero entrata in quella piccola stanza insanguina, tutto mi si era fatto buio, lasciando quella piccola fessura a forma del suo sorriso più sincero e vivo.

Avevo appena scoperto una cosa che m’aveva segnata come quelle ferite sul suo braccio, eppure lui stava bene con me, lo capivo, ma non riuscivo a vedere motivo per, viste le vecchie cicatrici, continuare a distruggersi, fregandosene di tutto e tutti.

Ci ero rimasta male, ma non lo davo a vedere, come tutte le cose, perché, almeno di questo io me ne curavo, sapevo che l’avrei fatto stare male.

Non ero arrabbiata con lui, neanche scoraggiata, forse un po’ delusa, ma non da lui, da me.

Non c’ero stata, potevo impedirlo benissimo invece di andare in giro a cazzeggiare senza nemmeno avvisarlo o dirgli di aggiungersi a noi.

Eppure mi guardava, mi guardava come se fossi stata la cosa più bella che l’universo nei suoi occhi avesse visto, come se i suoi occhi fossero il cielo appena cessata la pioggia; mi pregava con quelle iridi verdi di scordare tutto, quello che avevo visto, quello che aveva detto in preda al panico, quell’aleggio di tristezza che gli oscurava lo sguardo attento e sempre sorridente.

Ma una domanda mi sorgeva quando lo vedevo sorridere : era davvero felice?

Non ero mai stata una persona che si prendeva il merito di tutto, anzi completamente il contrario, ma ero sicura che in quei sorrisi belli e nitidi c’era la mia immagine dormiente, perché io lo sapevo che lui si addormentava dopo di me per paura di qualcosa di infondato, come se potessi scappare da lui da un momento all’altro.

Io non l’avrei mai fatto.

Anche io lo guardavo, sorridendo per averlo ancora al mio fianco in quell’auto non troppo nuova, provando a cancellare con il suo sorriso, fonte dei miei giorni, tutto ciò che non volevo ricordare, ma era troppo quello che doveva essere eliminato dalla mia vita.

Lo osservavo nei minimi particolari,atteggiamenti che ormai erano abitudini nella nostra vita, i suoi sorrisini, gli insulti sussurrati ai guidatori, le imprecazioni condivise nei assoli di chitarra del cd che Mike ci aveva regalato, Nevermind dei Nirvana.

Era bello.

Bello da morire.

E lui moriva dentro.

Ma nessuno se ne accorgeva.

Tranne me.

E mi chiedevo se tutto fosse tornato normale, per quanto potesse essere normale la vita di due adolescenti cresciuti troppo in fretta, se tutto fosse cambiato dal momento in cui il groppo aveva otturato la mia gola, o se, come la prima volta in cui mi tatuai le sue labbra sulle mie, sarebbe nato qualcosa di meraviglioso.

Si accorse del mio turbamento e mi afferrò la mano, non appena parcheggiò l’auto dietro la piccola pizzeria dove parecchie volte eravamo andati con gli altri; mi sorrise, infondendomi il coraggio che, nonostante quello, non si caricò per nulla.

La paura di perderlo era troppa, perché io l’avevo visto disperato e morto, e non ci misi molto a viaggiare con la fantasia per pensare ad una vita senza lui.

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