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Era l’ora di storia, la seconda, ed io non riuscivo a smettere a pensare a lui, ad Ashton.

Quella mattina, non appena mi vide, mi abbracciò e mi baciò con quanta foga il sonno gli permettesse, e i suoi occhi, cazzo i suoi occhi, mi avevano guardato con quella scintilla con cui Calum guardava Loris, quella scintilla con cui i facevo prendere fuoco al riccio.

Nella mia testa sembrava essere tutto così vuoto, così leggero, che le parole della grassa donna erano le ultime cose che mi interessavano e che avrei voluto ascoltare; le sue labbra sembravano chiamarmi dall’interno della mia mente impallata su di lui, e io, come per sentirle nuovamente, mi mordevo le mie fino a provare quella fitta che sovrastava di poco la sensazione del buco nello stomaco.

Guardavo la lavagna, fissando le parole scritte in modo schematico e cercando di trovare le lettere del suo nome; presi la penna in mano e mi maledii per quante volte scrissi dei suoi capelli, dei suoi occhi e del suo sorriso magnifico, pensando che avrei strappato i fogli e poi li avrei infilati disordinatamente nel mio diario al corrente di tutto.

Avrei fatto di tutto per essere al suo fianco, in quel momento, durante la lezione della Anderson insieme a Michael e Calum, mentre a Luke probabilmente stava ribollendo il sangue alla sola vista della Bailey.

Scorsi per l’ennesima volta il telefono e mi accorsi che, quelli che mi erano sembrati secoli, erano solo dieci lunghissimi minuti, in cui non riuscivo proprio a connettere.

Lo conoscevo da così poco eppure mi aveva così cambiata, ormai non squadravo più la gente da capo a piedi, perché i miei occhi erano sempre fissi su di lui e sul suo sorriso; mi aveva persino convinto a passare dall’entrata principale, quella mattina, così, sotto lo sguardo di tutti e mano nella mano, ci eravamo addentrati nell’ingresso fin troppo popolato per i miei gusti solitari.

Quando la campanella suonò fu musica per le mie orecchie, e non facevo altro che tenere il conto alla rovescia all’ora di pranzo, preparandomi già il discorso che avrei fatto agli altri per dire che io e Ashton stavamo insieme, o meglio mi immaginavo il discorso che non avrei pronunciato, visto che io e il ragazzo non eravamo veramente fidanzati.

Era una cosa che mi mandava fuori di testa, quella.

Non sapevo se stessimo insieme o meno, a dir la verità lo speravo con tutta me stessa e, quei baci, quelle carezze che s’erano consumate fino a tre ore prima, dovevano pur significare qualcosa oppure, come al solito, ero il giocattolo di qualcuno.

Ma il qualcuno in questione era Ashton e non mi avrebbe mai scambiato per un giocattolo, ne ero convinta.

Mi ritrovai tra i miei pensieri, immersa nella folla di studenti che correvano da tutte le parti, per i corridoi dai muri bianchi e grigi, come quelli degli ospedali in cui da piccola avevo praticamente vissuto per via di anziani parenti.

Tutti i miei nonni erano morti, tranne la madre di mia madre e, forse, era l’unica cosa che ringraziavo a Gesù Cristo, se non per il fatto che andasse matta per quella scassa ovaie della moglie di mio zio, l’odio per quella donna era l’unica cosa che legava me e mia sorella.

Fui sul punto di imboccare il corridoio per l’aula di chimica, ma delle mani mostruosamente grandi, che riconobbi in un istante,  mi afferrarono per il bacino e mi strattonarono indietro e,senza nemmeno il tempo di batter ciglio, delle labbra, le sue, si poggiarono sulla mia guancia.

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