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ASHTON’S POV :

Erano circa le tre del mattino e mi guardai per l’ennesima volta nello specchio del bagno ancora incrostato dal sangue del giorno prima, nonostante avessi cercato di pulirlo più e più volte, ma ormai ci avevo rinunciato, come facevo con tutto.

Ma c’era una cosa a cui non avrei rinunciato per nulla al mondo : Art.

Lei voleva andare al mare ed io ero là, nel bagno a controllare di non avere uno sguardo troppo stanco o intontito dalle stelle, mentre sul divano lo zaino con tutto il necessario troneggiava tra i cuscini; l’avrei portata nella spiaggia in cui io,Cal, Mike e Luke andavamo a cazzeggiare fin da quando avevamo 10 anni.

Ci sarebbero state la luna e le stelle e, per osservarle meglio fino all’alba, avevo portato l’asciugamano di Batman e da mangiare, considerato che mi ero accorto che Art quella sera non aveva mangiato molto, quindi si sarebbe sicuramente svegliata affamata.

Ricontrollai il tutto per quella che sarebbe stata la milionesima volta, cercando di trovare il coraggio di svegliare quell’angelo che, non appena i suoi occhi avrebbero battuto ciglio, si sarebbe tramutato in un diavolo.

Ma a me non importava, era sempre bellissima e volevo farla felice.        

Presi il telefono e controllai l’ora, le tre e sette; tra poche ore sarebbe sorto il sole e sarei rimasto fregato, così digitai il numero che, dopo tanti tentativi di chiamarla nei momenti in cui il coraggio mi veniva meno, sapevo a memoria e aspettai che rispondesse.

Mi immaginai tutto, lei che sbatteva gli occhi e credeva di sognare finché la suoneria non le avrebbe perforato i timpani, facendola bofonchiare quell’adorabile “Ma che cazzo..” di cui neanche se ne accorgeva l’uscita, poi prendeva il telefono e leggeva il mio nome, mi malediva ma nonostante tutto mi rispondeva con il sorriso sulle labbra.

E quando proprio pronunciò quel “Pronto? Ash, stai bene?” capii d’essere il ragazzo più fortunato del mondo e, a quel pensiero, il coraggio mi venne sempre meno, impicciandomi tra i modi per dirgli che volevo portarla dove mi aveva chiesto.

Volevo essere romantico, ma l’unica cosa che mi uscì fu un “Esci” con un tono che di romantico e dolce non aveva proprio nulla.

Mi passai la mani tra i capelli che a Art piacevano tanto, lo capivo da come li guardava e da come esaminava ogni singolo riccio, poi mi misi lo zaino in spalla e, dopo aver controllato le ultime cose, chiusi la porta del mio appartamento alle mie spalle, ritrovandomi sul pianerottolo e sperando che la ragazza non avesse creduto di star sognando.

Ma ecco che, dopo pochi minuti, la sua piccola sagoma fuoriuscì dall’uscio controllando bene che nessuno l’avesse vista; aveva gli occhi stanchi e maculati dal nero del mascara che, sbadata com’era, s’era scordata di togliere e che li faceva sembrare ancora più assottigliati di quanto fossero, i suoi capelli erano arruffati in uno strano e disfatto chignon, da cui i ciuffi uscivano liberi come le imprecazioni.

In quelle condizioni, con il pigiama dai corti pantaloncini e la maglia dalla vertiginosa scollatura coperta da alcune ciocche tulipano, io la trovavo sempre bellissima.

Sorrisi vedendola, era l’unica che riusciva a farmi sorridere anche alle tre e un quarto del mattino nonostante il sonno.

“Ashton è successo qualcosa?” chiese preoccupata, stringendosi le mani sul petto e scontrandovi dolcemente il viso assonnato.

“No, andiamo” le presi una mano e la condussi per le scale, mentre le sue infradito rumoreggiavano piano per i gradini illuminati fiocamente dalle luci vecchie.

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