11: tra graziose fanciulle e bariste-psicologhe

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Le voci allegre ed energiche di quella folla di bambini urlanti e scalpitanti, giungevano alle orecchie del piccolo come un'eco lontano e indistinto.

Facendo ondeggiare lentamente le gambe, a penzoloni nel vuoto dall'alto della panchina del parco, lui volgeva tranquillamente il capo prima da una parte e poi dall'altra, osservando con una sorta di distacco la scena che gli si presentava davanti.

Ogni tanto un pallone o qualche bambino tutto arrossato per la fatica e l'euforia del gioco, gli finiva accanto, ma lui quasi non vi prestava attenzione. O almeno, non più di quanta avrebbe potuto rivolgerne allo schermo di un televisore, ovvero a immagini sì avvincenti ed emozionanti, ma al tempo stesso a lui irrimediabilmente estranee.

Ogni tanto capitava che qualcuno gli arrivasse davanti e lo incitasse a partecipare, ma la sua risposta era sempre la stessa: una lenta rotazione del capo, prima a destra e poi a sinistra, accompagnata da un lieve sorriso, come per rassicurare il seccatore di turno che la sua non fosse timidezza, ma che invece fosse davvero sicuro di voler rimanere lì, seduto da solo su quella panchina.

Ogni tanto gli capitava che la lingua gli si intrecciasse e lui rischiasse di rispondere a quella fatidica domanda con un "sì", ma in qualche modo riusciva sempre a fermarsi prima che fosse troppo tardi.

Onestamente, neanche lui lo sapeva quale fosse il motivo di questo suo comportamento, dopotutto aveva solo nove anni. A quell'età cosa poteva mai saperne di emozioni e comportamenti umani?
Tutto ciò che sapeva era che la situazione attuale gli stava bene, anzi ancora più che bene, benissimo. Gli piaceva rimanere seduto lì, a guardare gli altri giocare da lontano, sentire quella lieve brezza che gli accarezzava la pelle olivastra e lasciarsi cullare dal suono delle loro risate.
Non aveva bisogno di buttarsi nella mischia, non voleva l'apprezzamento o l'attenzione degli altri.
Gli bastava rimanere lì in disparte per essere felice e di questo ne era fermamente convinto. Si può dire che fosse praticamente la sua unica certezza nella vita, il suo unico punto saldo.

Questo almeno fino a quel sabato pomeriggio...

- Sei patetico. - Disse una voce alle sue spalle, facendolo trasalire. - Startene qui seduto tutto il giorno e tutti i giorni, a guardarti in giro e sorridere da solo. Non hai proprio nulla di meglio da fare? -

E all'improvviso tutto cambiò.

~

- Buttalo. -

- No! -

- Non era una richiesta, ma un ordine. Adesso buttalo. -

- Mi rifiuto! -

- Insomma, sii ragionevole! Cos'hai intenzione di dirgli quando un giorno finirete sul letto in camera tua? Per caso: oh, scusa se c'è poco spazio, ma purtroppo metà materazzo è occupata dal mio dakimakura. Come? Te, dici? Ma no, è solo uno che ti somiglia... -

E nel dire questo la ragazza incrociò lentamente le braccia al petto, rivolgendo un'occhiataccia al minore.

- Non è una cattiva idea. - Commentò però Unkei, strabuzzando gli occhi. - Mi passi il quaderno? Così me la appunto. -

All'udire quelle parole, la mora rivolse uno sguardo implorante in direzione della fidanzata, la quale a questo punto si trovò costretta a intervenire.

801 sfumature di bum bum timeDove le storie prendono vita. Scoprilo ora