XLIII: Foglie di tasso

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Nives aveva scoperto di sopportare il dolore meglio di quando era un'orfana.

L'ultima volta che si era trovata davanti a un vuoto simile, in grado di scavarle l'anima e la carne fino a raggiungere le ossa, era stato anni prima, da bambina: il dolore sordo provato nel momento in cui era venuta a conoscenza delle condizioni di Taron, infatti, era il medesimo che aveva affrontato dopo la scomparsa dei genitori. Gli dèi dovevano trovare divertente rendere di nuovo Myrer il teatro delle sue sofferenze.

L'unica misericordia ottenuta era stata convincere Litthard a farle vedere il generale. Il giorno successivo all'arrivo delle truppe di mercenari Nives si era presentata davanti alla tenda dell'uomo di prima mattina. Gli occhi gonfi e arrossati dovevano essere stati più efficaci delle suppliche con cui l'aveva colpito. Tra una preghiera e l'altra, oltretutto, era riuscita a farsi narrare cosa fosse accaduto dopo l'assedio.

"All'inizio non sembrava nulla di grave" le aveva detto l'uomo, aprendo la strada attraverso il campo militare. "Il nostro medico l'aveva rimesso in piedi in fretta e lui sembrava stare abbastanza bene. Scherzava sulla ferita, dicendo che avrebbe avuto una nuova cicatrice di cui vantarsi..."

Nives l'aveva guardato di sottecchi, cercando di capire cosa potesse essere andato storto. Erano rimasti entrambi in silenzio per una decina di passi, lo scalpiccio bagnato sul fango che riempiva il vuoto.

"Dopo sette giorni gli è salita la febbre." Litthard l'aveva detto con una fredda schiettezza che Nives, nonostante tutto, aveva apprezzato – non poteva permettersi finte consolazioni. "La ferita è diventata calda, gonfia, e si è riempita di pus" aveva continuato, per poi aggiungere, una volta arrivati alla tenda del ferito: "Vi avverto: se il vostro stomaco è debole, sarebbe meglio non entraste."

"Non ho intenzione di tirarmi indietro."

Se l'uomo aveva percepito il tremolio della sua voce, non l'aveva dato a vedere, scostando invece per lei il lembo che chiudeva l'ingresso e permettendole di entrare.

La prima cosa che l'aveva colpita era stata la puzza.

Aveva sentito girarle la testa, tanto l'aria era viziata, pregna dell'odore acre e penetrante delle erbe medicinali, quello rivoltante e umido del pus e, infine, di un leggero sentore di ferro che aveva ricondotto subito al sangue. Ciò che le aveva fatto tremare il cuore, però, era stato il rendersi conto che, al di sotto di tale cappa, si poteva sentire un altro denso lezzo in grado di portarla indietro nel tempo, alla notte in cui tutto era iniziato, quando Ferdl le aveva stretto la gola sotto lo sguardo spento di Regn. L'odore della morte rimaneva sempre il medesimo.

Si era girata verso Litthard nel tentativo invano di trovare conforto, ma sul volto dell'altro era solo dipinta un'espressione disgustata e allo stesso tempo abbattuta. Era quindi tornata a concentrare l'attenzione sul ferito e, dopo aver inghiottito un grumo di saliva e scacciato tutti i ricordi, era avanzata fino alla branda dalla quale vedeva spuntare, sotto un cumulo di coperte, il capo di Taron. Vicino al letto si trovava un tavolino, pieno di erbe medicinali e con una brocca d'acqua.

"Tenete aperta la tenda" aveva ordinato al secondo. "Qui non si respira." Si era seduta per terra vicino alla branda e si era messa a sfiorare i capelli dell'uomo, bagnati di sudore e pieni di nodi, scostandoglieli dal viso con delicatezza. "Non osare morire..." aveva sussurrato, riempiendogli il viso di carezze. "Non adesso che sono qui con te."

L'aveva terrorizzata vederlo smunto, grigiastro nella carnagione e con la barba che ne nascondeva i tratti scavati dalla malattia; oltretutto, se non fosse stato per il leggerissimo alzarsi e abbassarsi del petto, appena percepibile, l'avrebbe creduto morto. Il respiro era infatti ridotto a un rantolo faticoso, alternato a lunghi attimi di apnea in cui la sensazione che l'anima avesse abbandonato il corpo una volta per tutte si faceva più netta.

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