4.GEORGE

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Y'a d'la joie

Charles Trenet

«Chambourcy, 1946. Sono cresciuto in un paesino non lontano da Parigi, uno di quei tipici paesini nel quale tutti gli stereotipi dell'uomo francese hanno piena manifestazione.

Mio padre, Jaques, era il panettiere del paese e la mia famiglia godeva di grande prestigio. Motivo per il quale mia mamma Marie, sfornava tanti bambini quante erano le baguettes vendute ogni mattina.

Sfortunatamente, Io ero il primo maschio della famiglia dopo Marguerite e il mio destino era presto segnato: dover imparare il mestiere del padre e portare avanti la tradizione che ormai andava avanti da tre generazioni: l'arte della panificazione.

Può immaginare signorina, cosa può significare per un ragazzino di 10 anni doversi svegliare tutte le mattine alle quattro del mattino mentre i tuoi amichetti si preparano a passare le loro giornate estive immersi tra i campi di grano a giocare a nascondino e mangiare i croissant che tu stesso prepari uno ad uno secondo la ricetta segreta di bon Monsieur Jaques.

Era palese che questo rapporto di dipendenza dovesse finire prima del tempo. Anche perché ogni domenica mia madre invitava mio zio dalla città. Si da il caso che il mio caro zio venuto da Parigi fosse un importante medico.

È strano come il destino di due fratelli possa essere così immensamente diverso: Marie era rimasta a Chambourcy, promessa al figlio maggiore della famiglia Rochefort e il fratello, simpatico occhialone ma poco fortunato in amore - forse perché troppo intelligente e poco risoluto nei confronti delle signorine del paese - fosse stato inviato con biglietto di sola andata verso la grande città per imparare la nobile arte della medicina.

Anche io ero un simpatico occhialone e i presupposti di trovare una signorina alla veneranda età di 10 anni erano molto scarse. Molte di loro erano mie cugine e l'unica ragazzina di cui mi fossi realmente invaghito era già nelle grazie di quel gradassone di Marcel - che detto tra noi era così ben impostato solo perché mangiava il croissant del bon Jaques. In ogni caso, il mio destino era ancora diverso da quello di mio zio poiché volente o nolente, sarei stato relegato a quel paesino per tutta la vita.

Sta di fatto che ogni domenica mi svegliavo con più gioia del solito per poter preparare con arguzia e determinazione la miglior baguette destinata al mio caro zio, Michel Bertonet. E ricevere tanti complimenti da lui era una gratitudine tanto grande più di quanto non lo fosse essere congedato dalla bottega di mio padre a causa dell'inizio della scuola.

Ogni domenica pomeriggio era il mio personalissimo premio per i sacrifici e i rimproveri che dovevo subire ogni giorno dagli occhi severi del bon Jaques. Le passeggiate lungo i sentieri della nostra tenuta a fantasticare sulla città, universo lontanissimo agli occhi di un ragazzino i quali occhiali erano sempre appannati da uno strato spessissimo di farina.

Immagini che sorpresa e che gioia quando nell'estate del 1958, zio Michel decise di venire a stare qualche mese da noi per riposare un po' e trovare del tempo per riflettere sulle cose "dei grandi". Ovviamente non potevo capire cosa fossero queste cose "da grandi" ma mi importava poco. Soprattutto perché il pensiero di seguire le orme di zio Michel erano sempre più forti ed era lui stesso ad insistere che le mie mani avevano acquisito un livello di agilità al pari di uno scultore e il mio cuore era buono come i croissant che gli portavo ogni giorno in cambio di una lezione di anatomia o un racconto di come fosse vivere in quel grande universo come Parigi.

Giorni dispari

Ludovico Einaudi

Euforia ContemplativaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora