Capitolo XX

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20.

Se c'era una cosa che Marta odiava più della festa della donna, quelle erano proprio le festività in genere.
Aveva proprio dimenticato che l'8 marzo fosse alle porte. Non riusciva a descrivere lo sconforto che le montò dentro con un lamento quando constatò che la festa della donna coincidesse con la domenica che precedeva il martedì grasso.
Il Carnevale era alle porte, così come l'inizio della Quaresima che avrebbe visto la sua religiosissima madre impegnata nelle varie funzioni celebrate in chiesa.
Quel giorno qualcosa l'avrebbe disturbata più dei carretti di mimose a ogni angolo della strada e degli ipocriti auguri che era costretta a ricevere in quanto donna: il consueto pranzo di famiglia della domenica.
Ogni occasione festiva si trasformava in un appuntamento improcrastinabile e la gioia iniziale che si insinuava in Marta all'idea di rivedere i propri cari si traduceva in brevissimo tempo in una vera e propria agonia che le soffocava il respiro in gola.
Quel sabato, dopo la feroce litigata con Lorenzo, aveva deciso di anticipare la partenza. Aveva bisogno di cambiare aria, anche se questo significava trascorrere ore in più nella sua casa natale.
Era fin troppo insofferente per poltrire sul suo divano, specie se lo sguardo fisso sulla porta la riportava a qualche ora prima: lei mezza nuda, Lorenzo infuriato e Mario come terzo incomodo.
O forse a fungere da terzo incomodo doveva essere proprio Lorenzo, ma chissà per quale ragione la sua mente si ostinava a collocarlo in un altro ruolo nel triangolo.
Ripensare a Lorenzo la faceva digrignare i denti per la frustrazione.
Quella volta aveva oltrepassato ogni limite e lei si era ripromessa di fargli scontare ogni offesa subita.
Tuttavia, per quanto l'idea di cambiare aria l'avesse allettata parecchio, quando tornò nel suo paese per trascorrere il weekend di Carnevale, le bastò mettere piede nella provincia di Caserta per sentirsi nuovamente oppressa.
Le strade le sembravano troppo strette e chiassose, con le auto parcheggiate persino in terza fila che talvolta impedivano il passaggio e gli occhi addosso dei fraccomodi del paese che scommettevano i risultati delle partite nel bar della piazza principale, quella della chiesa.
I bambini giravano tutti imbelliti e truccati nei loro costumi di Carnevale, come se stessero sfilando su una passerella per sfoggiare agli altri il lavoro dei genitori.
Doveva ammettere che ci mettevano parecchio impegno, qualcuno si superava sempre in originalità strappandole qualche risata.
Come quando, ad esempio, vide un bambino vestito da "zupp' e' cozze", ovvero infilato in un costume da cozza a sua volta incastrato in una pentola. E con tanto di cartello appeso con il prezzo e scorza di limone sul capo.
Era strana la sensazione che provava nel momento preciso in cui metteva piede nella sua città natale. All'inizio si sentiva anche a casa. Poi si guardava intorno, rivedeva quelle abitudini, quelle persone, ascoltava le loro parole e tornava a sentirsi un'estranea. E poi trascorreva qualche ora in compagnia dei suoi genitori e quello era un tempo più che sufficiente per trasformare il flebile senso di nostalgia in una conta disperata dei minuti che la separavano dalla sua libertà.
Solo la presenza di Federico, suo fratello minore, l'unico che l'aveva sempre appoggiata e che condivideva con lei le ampie vedute, le addolciva quella permanenza.
Per sua fortuna, Marta abitava in una zona residenziale un po' più distante dal centro e per questo più tranquilla.
Parcheggiò l'auto nel giardino e guardò la sua villetta a due piani rilasciando un forte sospiro.
Non era certa di poter superare il weekend senza rischiare la schizofrenia.
Soprattutto quando la madre, avvertendo il rombo dell'auto, uscì per correre a salutarla, indugiando parecchio sul suo aspetto. La squadrò da capo a piedi con le mani puntellate sui fianchi e l'aria critica che la studiava con circospezione.
«Stai sciupata, a mamma! Devi mangiare! Agli uomini non piacciono le stecche, ma le curve! Par n'oss pe 'o' bror!»
Marta sollevò gli occhi al cielo e l'abbracciò più per impedirle di notare la sua insofferenza che per un moto di affetto.
«Mi sei mancata anche tu mamma.»  disse, con una lieve nota sarcastica.
Entrò in casa al seguito della madre, ignorando la sfilza di domande sulla sua vita privata.
Il cruccio di sua madre Marisa era sempre quello di vederla sistemata accanto a un uomo. E con un pargolo tra i piedi. Non le importava la sua carriera professionale, per sua madre una donna non poteva dirsi realizzata senza una fede al dito e l'utero svuotato.
Marta finse di ascoltarla annuendo più volte con il capo e si diede un'occhiata intorno.
La sua casa era sempre uguale, con quell'odore di soffritto proveniente dalla cucina che infestava l'ambiente e il suono della lavatrice in moto.
Era grande, la classica villetta a due piani di provincia, con un ampio salone e il camino acceso per il freddo. Il divano a elle di pezza bordeaux e la poltrona solitamente occupata da suo padre davanti a un grande televisore al plasma rigorosamente sintonizzato sulle partite di calcio.
Marta andò a salutare il padre in giardino, in quel preciso momento impegnato nella potatura di una siepe. Indossava un coppola pesante di colore grigio, dello stesso colore dei calzoni trattenuti in vita da un cintura di pelle marrone. Le mani erano coperti da spessi guanti di gomma e di tanto in tanto le passava sulla fronte appena imperlata di sudore.
Marta gli posò un bacio sulla guancia umida e riuscì a guadagnare un sorriso mesto, quasi affettuoso.
Non poteva sperare di meglio da Michele Bianco; suo padre era piuttosto noto per essere un tipo freddo.
«Sei arrivata adesso?» chiese, guardandola a stento.
«Sì. Ho lavorato stamattina, perciò sono venuta tardi.»
«Hai lavorato di sabato?»
«Sì.»
Il padre di Marta inarcò le sopracciglia perplesso.
«Ma chi te lo fa fare. Potresti benissimo evitare.»
Marta strinse le labbra. Come al solito, la sua realizzazione professionale veniva vista come qualcosa di superfluo.
«A me piace quello che faccio. Non mi pesa.»
Il padre scrollò le spalle come a dire "contenta tu" e Marta capì che quella fosse la fine del loro momento di scambio tra padre-figlia.
Si rintanò in camera sua, una graziosissima mansarda tutta giallo pastello.
Aveva sempre amato la sua cameretta. Era lì che aveva nutrito i suoi sogni, leggendo i libri di Simone de Beauvoir e Dostoevskij seduta sul davanzale. Gli occhi fissi sul cielo stellato, a sperare che qualcosa cambiasse per il suo futuro.
Uscì dalla sua tana solo quando fece ritorno suo fratello Federico.
Federico era il più piccolo di casa ed era indubbiamente il suo preferito.
Era simile a lei in tutto, soprattutto fisicamente. Lo stesso colore scuro di capelli, gli stessi occhi verdi, persino la bocca carnosa. E tutto ereditato dalla madre.
Era la sua versione al maschile, solo che Federico, a differenza sua, oltre a essere alto quasi un metro ottanta, era molto più allegro e giocoso.
Dell'espressione superba e altezzosa di Marta non vi era traccia e Marta amava quel suo essere così spontaneo e genuino. A tratti lo invidiava quasi.
Erano sempre andati molto d'accordo, cosa che non poteva dire dell'altro suo fratello Ciro, il più grande.
Ciro era quello che più di tutti si era lasciato plagiare dalla mentalità di paese.
Non aveva frequentato l'università e collaborava come geometra presso lo studio privato dell' ingegnere del paese. Non era mai stato molto studioso e dopo aver iniziato a lavorare a diciotto anni, si era sposato dopo qualche anno e adesso aveva due figli.
Una vita molto standard per chi non aveva l'ambizione di elevarsi socialmente.
Marta non era mai riuscita a instaurare un buon rapporto con lui, d'altronde come avrebbe potuto: Ciro era la fotocopia di suo padre.
Burbero, per certi versi rozzo e soprattutto marcatamente maschilista.
Quando era adolescente, Marta non si doveva nascondere solo dai suoi genitori, ma doveva anche sfuggire al controllo di un fratello terribilmente geloso.
Non poteva mai dimenticare la scenata che le fece quando la beccò nel viale del suo palazzo a limonare con un ragazzo della sua scuola.
Gli urlò contro così tanti improperi e minacce che Marcello, così si chiamava, cominciò a evitarla come la peste per tutelare la sua incolumità.
Quel fratello super possessivo le aveva messo tanti bastoni tra le ruote, non solo nei rapporti sentimentali, ma con riguardo a ogni aspetto della sua vita sociale.
La controllava quando usciva e le sbraitava contro se indossava un vestitino più corto.
A volte arrivava persino a dirle che sembrava una puttana, umiliandola a tal punto da farla scoppiare a piangere. E il tutto con l'appoggio dei suoi genitori che se ne fregavano altamente delle sue lacrime, condividendo appieno le ragioni di quel fratello troglodita.
Marta era convinta che solo una donna remissiva e plagiata da quella mentalità potesse decidere di stare insieme a suo fratello. E difatti, Sabrina, la moglie, era proprio quel tipo di donna che a ventitré anni si era reclusa in casa tra faccende e figli da sfornare. Lo stesso tipo di donna che si compiaceva quando il suo uomo si lasciava andare a una sfuriata per via di una gonna, come se quell'insensato sfogo di gelosia fosse sintomo di amore e protezione e non un'indebita repressione della propria autonomia.
E magari lo era pure, ma se un uomo arrivava a darti della poco di buono per qualche centimetro di stoffa in meno, era un troglodita, non un fidanzato protettivo.
Marta odiava suo fratello Ciro più di suo padre. Era quell'odio che si accompagnava sempre a un grande amore, quello che faceva stare male perché non si riusciva solo a disprezzare. Si provava a compiacere, ci si ostinava a conquistare quella considerazione che l'avrebbe resa la donna più felice della terra.
Perché Marta, benché si ostinasse a evitarli come la peste, soffriva ancora quella specie di succubanza che la spingeva a reclamare la giusta considerazione.
Fortunatamente, suo fratello Ciro non sarebbe stato presente, essendo dai suoceri.
Mancava poco alla cena e Marta e Federico se ne stavano stesi sul divano a guardare svogliati la televisione, mentre suo padre, Michele Bianco, con la pancia rigonfia costretta nella camicia e i baffi bianchi, cercava di terminare il suo Sudoku con una sigaretta tra le labbra.
«Ehi, Chicken Little, ho saputo che ti sei fidanzato!» esclamò Marta divertita, mentre scombinava affettuosamente i capelli al suo fratellino.
Federico arricciò il naso e cercò malamente di allontanare le mani della sorella maggiore dai suoi adorati capelli.
«Smettila di chiamarmi così! Ho ventitré anni adesso!» protestò, sbuffando.
«Marta, tu invece che ne hai trenta, quando pensi di trovarti un fidanzato?» intervenne la madre, mentre stringeva tra le mani un cesto di panni sporchi da infilare in lavatrice.
Marta alzò gli occhi al cielo e sospirò esasperata, maledicendo se stessa per aver incautamente introdotto il discorso. Tenendo sempre all'oscuro la madre della sua vita privata, aveva insinuato in lei la convinzione di non avere contatti con il genere maschile dai tempi dell'università. Inutile dire quanto questo l'avesse resa ancora più ostinata nella sua crociata personale di vederla con uomo.
«Non saprei, mamma, stavo pensando di diventare lesbica!» replicò sarcastica, suscitando le risa del fratello.
La madre, donna minuta e riverente, s'immobilizzò di colpo e dopo un attimo di sbigottimento, fulminò la figlia con astio.
«Non sei divertente.» la riprese, stizzita «Ma si può sapere che problemi hai? Fossi brutta e va bene, me ne farei una ragione, ma sei così carina! Sei uguale a me da ragazza e credimi, io avevo la fila di uomini fuori alla porta prima che mi sposassi con tuo padre! Sono certa che è il tuo carattere il problema, quello di sicuro non lo hai preso da me!»
«Oh Signore!» mormorò Marta affranta, cercando aiuto negli occhi comprensivi di Federico.
«Mamma, lasciala stare!»
«Mi sono stufata di lasciarla stare! Guarda come è finita: trent'anni, senza uno straccio di uomo, a difendere assassini!» sbottò la donna inviperita, poi alzò gli occhi al cielo e congiunse le mani in preghiera «Signore mio, ma cosa ho sbagliato con lei?»
Marta si portò una mano in fronte e mise in atto i suoi esercizi di respirazione per controllare la rabbia, ma il tremolio convulso del suo corpo tradiva ogni sforzo di contegno.
«Mamma, io non difendo assassini!» tuonò Marta irritata «Hai mai sentito parlare di presunzione di non colpevolezza?»
«Senti, Marta, non iniziare a rifilarmi quei paroloni che leggi nei tuoi libri! E adesso vieni a preparare la tavola, che è ora di cena.»
Marta indurì lo sguardo, ma non si mosse dalla sua postazione. Michele Bianco, seccato dalle solite discussioni, abbandonò il suo passatempo e puntò gli occhi sulla figlia.
«Marta, tua madre ha ragione, è ora che tu la pianti con queste scemità e cominci a comportarti da donna. E vai a preparare la tavola.» ordinò autoritario.
Marta ingoiò la bile aspra risalita in gola e con il viso paonazzo e la rabbia sull'orlo del cedimento, si diresse in cucina a denti stretti, le mani vibranti di frustrazione. Apparecchiò ordinatamente per quattro, escludendo il posto del fratello più grande assente e mentre ignorava la madre ai fornelli, chiusa in un rancoroso silenzio, lo squillo del citofono attirò la sua attenzione.
La signora Bianco fece una smorfia stranita e pulendosi le mani sul suo grembiule si affrettò a rispondere. Marta non si curò di sapere chi fosse, certa che fosse qualche amica guastafeste della madre e continuò a sistemare le posate poggiandole con eccessivo rigore.
«Marta, un certo Lorenzo ti cerca.» annunciò la donna con sorpresa.
Marta sbiancò di colpo. Sperò di aver capito male, non potendo proprio credere che Lorenzo Anselmi fosse dietro la sua porta.
Gli sguardi incuriositi dei suoi familiari le si puntarono addosso e lei, sconvolta e decisamente presa in contropiede, fece l'unica cosa le venne in mente: fare la finta tonta.
«Lorenzo? Non conosco nessun Lorenzo. » affermò con aria da svampita.
«Dice di essere un tuo collega.» rincarò la madre, che nel vedere la figlia arrossire s'illuminò di malizia ed eccitazione «Gli ho detto di salire.»
A Marta andò la saliva di traverso e quando poco dopo si ritrovò davanti la figura di Lorenzo Anselmi in abiti casual, temette di avere un mancamento all'istante.
«Ciao Marta.» la salutò, ghignando.
Lorenzo addentò il labbro inferiore per non ridere della faccia sbigottita della sua collega e Marta, incredula, non riuscì a far altro che guardare l'uomo inebetita.
«Marta, ma non mi avevi detto che avevi un uomo così bello come collega!» squittì la madre in visibilio, mentre squadrava compiaciuta il bell'avvocato.
«Mamma!» la richiamò Marta indispettita, poi cercò le iridi nocciola di Lorenzo e incrociò le braccia al petto «Che diavolo ci fai qui?!»
«Marta, ma che modi!» l'ammonì la signora Bianco contrariata «Lorenzo, devi scusarla,ma a volte questa sciagurata sembra dimenticare tutta l'educazione che le ho insegnato! Voglio sperare che a lavoro non ti si rivolga in questo modo!»
«Oh signora, non si preoccupi! Sua figlia è un agnellino!» ammiccò, rifilando alla signora Bianco un sorriso da capogiro.
Marta osservò con sconcerto la scena che le si palesò davanti: Lorenzo Anselmi che, con il suo savoir faire, entrava con estrema facilità nelle grazie di sua madre, quest'ultima che, sospirando come una quindicenne, andava in brodo di giuggiole a ogni parola pronunciata dall'avvenente avvocato e suo padre e suo fratello che, sbigottiti, alternavano lo sguardo tra l'uomo e le altre due donne della casa.
Marta arrossì vistosamente e rifilò al collega un'occhiata risentita per aver violato la sua, anche se poco gradita, intimità familiare, condannandola a un brutto quarto d'ora d'imbarazzo.
«Signora, mi spiace chiederlo, ma posso rapire Marta per qualche ora? Sa, sono stato a Roma per una settimana e abbiamo bisogno di discutere di alcune questioni lavorative.» chiese l'uomo affabile.
«Ma certo!» squittì la signora Bianco, congiungendo le mani «Michele, caro, tu che dici?»
Marta in quel momento non seppe cosa sperare; se appellarsi all'autorità di capofamiglia di suo padre e ottenere un diniego, condannandosi però a una cena a base di domande impertinenti e fantasie sconsiderate, oppure cogliere al volo il disperato e imprevisto salvataggio di Lorenzo e nutrire le false speranze della madre.
Michele Bianco, ancora perplesso, scrutò a lungo il giovane avvocato Anselmi. L'espressione era seria, per certi versi seccata, ma quando incrociò lo sguardo speranzoso della moglie, sospirò e annuì con il capo.
«Vi ringrazio infinitamente. Ve la riporto più tardi.»
Marta storse il labbro per il fastidio, sentendosi più un pacco da rifilare che una donna nel pieno della sua autonomia, ma senza fare ulteriori polemiche, afferrò cappotto e borsa e si diresse verso la porta.
«È stato un piacere conoscerti, Lorenzo! Spero di averti a cena la prossima volta.»
«Con molto piacere.»
«Andiamo!» lo esortò Marta seccata, tirandolo per un braccio.
Lorenzo guardò di sottecchi la sua collega mentre raggiungevano la sua auto e già si pregustava la sfuriata imminente che ne sarebbe seguita. Non lo avrebbe mai ammesso ad alta voce, ma cominciava ad adorare sul serio i battibecchi con Marta.
Non sapeva spiegarsi nemmeno lui per quale ragione si trovasse lì. Un attimo prima era a casa di suo cugino Luca, con suo padre e suo zio e l'attimo dopo era in macchina per fare cinquanta chilometri.
Si guardò intorno curioso, temendo che Marta gli ponesse quella domanda alla quale non sapeva come rispondere.
«Quindi è qui che sei nata.»
«Perché sei qui? E come facevi a sapere dove abitassi?»
Lorenzo sorrise di scherno e scrollò le spalle. Era ovvio che glielo chiedesse, specialmente dopo averla trattata in quel modo quella mattina.
«Passavo da queste parti...» rispose lui evasivo «E ti ricordo che sono il nipote del titolare, non mi ci è voluto molto per ottenere quell'informazione da zio Umberto.»
«Passavi da queste parti?» lo incalzò Marta scettica.
«Mh-mh.»
«E hai pensato bene di venire a casa mia a disturbarmi?»
«Disturbarti è il mio secondo lavoro.»  affermò con un sorriso malandrino.
Marta non ricambiò il sorriso e continuò a guardarlo con astio.
Incrociò le braccia al petto e picchettò il piede a terra in attesa di una spiegazione convincente.
Lorenzo sostenne il suo sguardo con il solito sorriso da schiaffi, ma la fermezza di Marta sembrava inscalfibile.
«D'accordo, sono venuto qui perché ho scoperto delle nuove cose dal diario.» e questo era parzialmente vero.
Solo che oltre al lavoro, sentiva anche il disperato bisogno di chiarire con lei.
«E ti sei fatto cinquanta chilometri per questo? Non bastava la canonica telefonata?»
Lorenzo alzò gli occhi al cielo e superò la donna per raggiungere il lato del guidatore.
«Sai bene che non parlo di lavoro a telefono.» rispose serio «E non fare quella faccia, si vedeva lontano un miglio che morivi dalla voglia di scappare!»
Marta sollevò il mento con fare spocchioso ed entrò in auto, ma non se la sentì di negare. Lorenzo aveva ragione e per quanto la sua comparsa potesse apparirle singolare, preferiva di gran lunga trascorrere del tempo a litigare con lui, piuttosto che con la sua petulante famiglia.
Marta puntò fermamente il capo in direzione del finestrino, decisa a ignorarlo.
Lorenzo fissò il suo modo di fare la sostenuta e sospirò stancamente. Dopotutto, conoscendola, non poteva che aspettarsi la sua solita espressione da Pitbull.
Marta si infilò la cintura di sicurezza, poi arricciò il naso avvertendo nell'aria un forte profumo di mimosa.
«Lorenzo, è odore di mimosa quello che sento?»
Lorenzo sbatté le palpebre e si ricordò del mazzo di mimose che aveva appositamente acquistato per lei poggiato sul sedile posteriore.
«Ah, sì! Ho visto il carretto e ho pensato di regalartene un mazzo, visto che domani è la festa della donna.»
disse, porgendogliele.
Marta guardò prima le mimose, poi il suo viso speranzoso, con un'espressione tutt'altro che benevola che fece deglutire vistosamente Lorenzo.
«Mi sembra di averti detto che se mi avessi regalato un mazzo di mimose-...»
« ...me le avresti ficcate in gola!»  terminò Lorenzo con una smorfia, ricordando solo in quel momento quelle parole.
Marta fece un sorriso finto, ma piuttosto eloquente, e Lorenzo si sentì un perfetto idiota.
Riposò impacciato le mimose sul sedile posteriore, senza sapere bene cosa dire per addolcirla.
«È stato un pensiero stupido. Dopotutto la festa della donna è davvero un'idiozia!»
Marta inarcò un sopracciglio.
«Dici?»
«Sì, certo!» affermò, studiandola di sottecchi per verificare di stare giocando una buona carta per ingraziarsela «Festeggiare la donna in un preciso giorno è come riconoscerne una condizione d'inferiorità. Una specie di contentino, ecco! D'altronde, mica si festeggia l'uomo? Perché mai allora si dovrebbe festeggiare la donna?»
«Perché l'uomo non ha subito le discriminazioni che ha subito la donna. Non è mai stato relegato a un ruolo di sudditanza e non ha dovuto lottare per conquistare i propri diritti.» ribatté Marta convinta.
Lorenzo, in procinto di mettere in moto, si immobilizzò di colpo e sbattè le palpebre confuso. In quel momento aveva davvero la faccia da idiota.
«Aspetta un attimo!» esordì, cercando di venirci a capo «Non vuoi le mimose, ma ritieni che la festa della donna sia una ricorrenza giusta. Si può sapere che cazzo vuoi allora?»  sbottò esasperato.
«Odio l'ipocrisia. Molti festeggiano la festa della donna, ma sono i primi maschilisti. Io non accetto le mimose da chi mi ha dato della troia solo perché ho deciso autonomamente di fare sesso con un uomo.»
Lorenzo rimase un attimo di stucco.
Poi si portò una mano in fronte.
«Io ci rinuncio!» borbottò tra sé e sé.
«Non hai nient'altro da dire?»
«E che devo dire?! Ogni cosa che dico non va bene!»
«Ti chiedo scusa per averti dato della troia, ad esempio!»
Lorenzo le rifilò un'occhiata eloquente. Era così evidente che fosse lì per quello, dopotutto non si era fatto cinquanta chilometri con un mazzo di mimose solo per parlare del caso Corsi. Stava fingendo di non capire per costringerlo a pronunciare parole di scusa, benché sapesse che Lorenzo fosse una frana in quelle cose.
Lo faceva sentire a disagio, preferiva un gesto. Era l'unico caso in cui preferiva i fatti alle parole. E proprio perché si sentiva tanto stupido a scusarsi, che finì come al solito con lo sdrammatizzare.
«Tecnicamente ti ho dato della trota.»  puntualizzò, sorridendo.
Marta digrignò i denti.
«Lorenzo!»
«E d'accordo, ho esagerato, va bene?»  sbottò scocciato «Ora puoi piantarla con questa faccia da Pitbull e torniamo ad andare d'accordo?!»
Marta affilò lo sguardo e voltò il capo dall'altro lato.
«No.»
Lorenzo gemette sconsolato.
«E ti pareva!»
Continuarono a comportarsi in quel modo fino a quando non raggiunsero una trattoria del posto nota per la cucina casareccia: Marta nel suo rancoroso silenzio;  Lorenzo, sempre più seccato, che tentava di rimediare al danno fatto.
Si accomodarono l'uno di fronte all'altro, ma un lieve imbarazzo elettrizzò l'atmosfera. Non era la prima volta che mangiavano qualcosa insieme, ma senza gli abiti formali e lontani dal contesto lavorativo, Marta percepì lo stesso disagio che soleva sopraffarla a un appuntamento. Soprattutto se Lorenzo Anselmi si era fatto tutti quei chilometri per vederla.
«Allora, che cosa hai scoperto?» esordì Marta,  prendendo un sorso di vino.
Forse parlare di lavoro avrebbe spazzato via quello strano imbarazzo, o almeno ci sperava. Marta non riusciva a pensare ad altro se non al fatto che le sembrava di avere un appuntamento con Lorenzo.
«Ho studiato tutto il diario e ho notato qualcosa di strano.»
«Strano in che senso?»
Lorenzo si fece serio e posizionò il cellulare al centro per consentirle di osservare le foto del taccuino da lui accuratamente immortalate.
«Ho come l'impressione che manchino delle pagine. Ne sono quasi sicuro.»
Marta si fece circospetta e lo ascoltò con attenzione.
Lorenzo aveva studiato con particolare cura il diario, soprattutto l'ultima parte che raccoglieva i pensieri di Flavia Corsi nel suo ultimo mese di vita.
Benché sperasse che la pista del fidanzato della coinquilina si rivelasse fondata, l'eventualità che il pubblico ministero procedesse con il rinvio a giudizio incombeva minacciosa.
E loro non potevano giungere al processo a mani vuote.
Aveva setacciato quel diario da cima a fondo e già da una più attenta lettura aveva notato una certa disorganicità nell'ultima parte, quella risalente a poche settimane dall'omicidio.
Precisamente, Lorenzo, leggendo, aveva avuto come l'impressione che le ultime due pagine appartenessero a due giorni diversi.
Non c'era alcun legame consequenziale tra loro. L'ultima parola della pagina precedente e il primo capoverso della pagina successiva erano assolutamente inconciliabili.
Nella prima, Flavia concludeva parlando delle sue ansie relative a un imminente esame universitario.
Nella seconda, invece, vi erano alcuni pensieri sconnessi relativi a un profondo stato di disagio.
Erano sì e no quattro righe, ma così criptiche che non era possibile nemmeno capire di cosa stesse parlando.

Se dio fosse stato donnaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora