Capitolo XXXII

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              32.

Marta ricordava il ritorno a casa come un cumulo sfinente di imbarazzo, inadeguatezza e sollievo. Suo padre a stento l'aveva guardata in faccia. Era troppo incapace di chiederle anche un banale come stai, parlare della cena sarebbe stato per lui un'impresa insormontabile che non era disposto ad affrontare. Il disonore era fin troppo fervido nella sua espressione e per quanto fingesse di non aver capito, Marta aveva la certezza che il suo fosse solo un vigliacco espediente per non affrontare la situazione e preservarsi dal comune giudizio di riprovazione.

Sua madre, invece, non aveva fatto altro che singhiozzare in sua presenza, ma lei aveva finto di non accorgersene per non rischiare un'ulteriore sfuriata.

Aveva provato a parlarle solo quando furono in prossimità della partenza. Era entrata nella sua stanza e le si era avvicinata timidamente, con le mani intrecciate tra loro che tradivano ogni forma di disagio. Aveva balbettato un timoroso "possiamo parlare" e Marta, imperturbabile, lasciò stare per un momento i bagagli e si mise in attesa.

«Io lo so che sono ignorante, che non sono evoluta come te. Ma io non sono una cattiva madre e io voglio solo il tuo bene. Se ti dico quelle cose è perché temo che tu non possa essere felice!» aveva frignato, scoppiando in un altro pianto «Tu sei la mia chicca

Marta, a primo acchito, era rimasta spiazzata, ma aveva provato una certa compassione nei suoi riguardi. Era la prima volta che sua madre le si rivolgeva in quel modo. Senza quella spocchia, senza quel suo modo di guardarla con disapprovazione, squadrandola, come se ci fosse sempre qualcosa di sbagliato in lei. Certo, il tocco di melodramma non poteva mancare, ma era lei. E non poté negare a se stessa che vederla lì, nella sua stanza, mentre si sforzava di provare a capirla, rispolverando il suo vecchio soprannome da bambina, le scaldò il cuore. Era così abituata alle sue critiche, si era così accomodata su quella convinzione secondo la quale sua madre non l'avrebbe mai capita, da non sapere come affrontarla. Non se la sentì di mettersi a tozzo come suo solito. Volle abbandonare, almeno per quel momento, la sua durezza nei suoi riguardi.

«Mamma...» aveva mormorato con gli occhi lucidi.

«Non mi hai detto che eri incinta. Io sono la tua mamma, chicca, non posso non sapere che ti succede. Mi spezza il cuore sapere che tu non ti fidi di me!»

«Ma come avrei potuto? Io mi sento sempre giudicata da te. Mi sembra sempre che io sia la tua delusione! Qualunque cosa io faccia, non va mai bene. Mi sono sempre sentita qualcosa di meno rispetto a Ciro e Federico!»

La mamma ebbe un sussulto indignato e le aveva mollato un bonario scappellotto sulla spalla.

«Oh chicca! Non dire assurdità! Voi siete tutti e tre la mia vita!»

Marta cominciò a perdere il controllo delle sue lacrime. Tirò più volte su con il naso e le si sedette accanto, sul suo lettino, appoggiandosi sulle sue cosce come una bambina.

Non era ingenua, non pensava che stesse avendo luogo un cambiamento, ma in quel momento le piacque crederlo. In fondo, non poteva nemmeno pretenderlo. Sua madre era così ed era destinata a rimanere tale. Eppure, per un breve momento, volle convincersi che esistesse una dimensione dove lei e sua madre avrebbero potuto essere sulla stessa linea d'onda.

«Mi dispiace, mammi.» aveva mormorato debolmente con la voce infantile.

Erano rimaste in quel modo per un'infinità di minuti. Sua madre che le accarezzava i capelli e lei accoccolata sulle sue gambe. Non parlarono, non si dissero nulla. Non vollero rovinare quel momento solo loro. Sua madre non le chiese niente a proposito della gravidanza e lei apprezzò che non lo avesse fatto. Parlarne le avrebbe nuovamente divise. Era sicura che sua madre non avrebbe comunque capito la sua scelta e probabilmente anche lei volle evitare di chiedere con la consapevolezza di non essere in grado di mostrare comprensione. E andava bene così. Quel timido calore se lo fece bastare.

Se dio fosse stato donnaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora