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Il passato

«Si, siamo tornate indietro a recuperare Matthew, che si era perso nella città. Scusateci se non vi abbiamo avvisato subito, ma non ci abbiamo pensato.» mentì Ashley, sostenendo ciò che avevamo concordato prima di entrare in biblioteca.

Avevamo tardato il rientro per passare dall'ottico e comprare le lenti colorate, come ci aveva consigliato Matthew, e poi ci eravamo dirette velocemente nel luogo dove avevamo lasciato le nostre amiche.

«La prossima volta, lascia un messaggio. Almeno so che non siete sparite chissà dove. Mi fate preoccupare, ragazze!» ribadì Rebecca a malincuore.

«Scusaci davvero.» fu quello che le dissi, mentre la stringevo in un forte abbraccio. «Non è successo niente, stai tranquilla.»

Era successo tutt'altro che niente quel giorno, eppure dovetti mentirle. Odiavo farlo, ma a quel punto ero legata ad un vincolo di parola degli Elemen che non potevo assolutissimamente infrangere. La domanda che mi posi, era quindi: sarei mai riuscita a continuare quella amicizia con dei segreti da nascondere? Ci speravo, ma forse la speranza non sarebbe bastata a sufficienza.

Prendemmo il treno per ritornare a casa e, quando ognuno raggiunse il proprio portone, ci salutammo con un cenno di mano. Non so come mai, ma fu come un triste addio il nostro saluto. Forse perché il tempo iniziava a trascorre troppo lentamente da permetterci di rivedere abbastanza presto.

Varcai la soglia dell'ingresso, posai lo zaino e la giacchetta sul divano e mi diressi in cucina dove mi aspettava mio papà. Eravamo soltanto io e lui ed era arrivato quindi il momento che tanto temevo: quello del confronto.

«Ciao papà.» dissi, appena vacai la soglia della porta. Mi sedetti nel mio posto a tavola e aspettai che mio padre finisse la telefonata, con cui era impegnato.

Quel giorno indossava la sua divisa ordinaria da carabiniere: era nera, e composta da una giacca con controspalline fermate da un bottone dorato; i pantaloni, con il loro semplice taglio classico, si mostravano con la banda rossa mentre la camicia bianca completava l'uniforme con la cravatta nera, i guanti di pelle e le scarpe basse altrettanto nere.

«Si certo, sarà fatto. Arrivederci.» disse come ultima frase per finire la conversazione.

Dopo aver riattaccato, mio padre mi rivolse la sua attenzione: mi salutò e mi servì il pranzo.

«Allora, com'è andata oggi a scuola?» mi chiese, mentre iniziava a consumare il pasto con i primi bocconi.

«Insomma, penso bene. I professori hanno già iniziato a spiegare, purtroppo, e con i compagni tutto per il meglio.» risposi, ricapitolandogli in breve la mattinata scolastica, mentre, con la forchetta, infilzavo la pietanza della giornata.

A tavola, nella mia famiglia era d'obbligo la comunicazione. Era un momento di condivisione delle proprie giornate e dei propri pensieri. Spesso poteva capitare di partecipare ad una lezione di storia, ad un libero sfogo o a dei lunghi dibattiti.

«Bene bene. Vedi di impegnarti a scuola, mi raccomando, come tutti gli altri anni.»

«Certo papà, figurati se butto al vento tutti gli anni di studio che ho fatto.»

«Sai, ci si mette poco a vacillare e cadere. Stai crescendo e la tua età è proprio quella dove spesso si commettono gli sbagli.» mi raccomandò.

«Lo so, lo so, me lo ripeti così tante volte...» lasciai la frase in sospeso. Me lo teneva presente continuamente, quasi diventasse il mio tormento o la mia nuova filosofia di vita. «Perché hai questo costante timore che io possa commettere degli errori? Fin ad ora non ne ho fatti e, se li dovessi commettere, sarebbe normalissimo, no?» chiesi, sconcertata dal comportamento di mio padre.

Elemen: il potere elementare~ITDove le storie prendono vita. Scoprilo ora