Capitolo 25

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Arrivai nel giardino dell'ospedale e raggiunsi Andrea che era seduto su una panchina sotto l'ombra di un grande albero.

– Ciao. – lo salutai con un sorriso e lui si sporse per darmi un leggero bacio sule labbra.

– Mi dispiace. – mormorò, torturandosi le unghie che erano piuttosto mordicchiate.

– Di cosa? – gli chiesi, girandomi verso di lui per osservare il suo viso.
Era preoccupato, aveva l'espressione simile a quella di Marco del giorno precedente. Ma a differenza del pallone gonfiato, sapevo leggere il suo viso angelico e capivo perfettamente cosa lo tormentasse. Sara.

– Del fatto che tu debba venire qui solo per stare con me durante la mia pausa pranzo, cioè mezz'ora, dopo una mattinata stressante all'università. – disse, con tono afflitto.

– Ti ho detto già mille volte che non devi preoccuparti, so come è la tua vita. E poi non sono stanca, sto bene. – gli sorrisi e lo accarezzai sulla nuca, per provare a tranquillizzarlo.

– Em, non mi freghi. Sono stato universitario prima di te, so che sei stanca morta e non vedi l'ora di tornare a casa e staccare il cervello. – mi guardò con quegli occhi che sembravano voler parlare.

– Io sono Emma Guerra, non smetto mai di usare il mio cervello. – feci spallucce, e per fortuna riuscii a strappargli un sorriso sincero.

– Come sta Sara? – gli chiesi.
Lo volevo sapere veramente, il caso di quella ragazza mi stava a cuore proprio come ad Andrea.

– È stabile. Non fa altro che dormire e sentirsi stanca. Cerco di tenerla attiva facendomi raccontare tutto della sua scuola, i suoi compagni, i pettegolezzi. Ma... mi sento impotente. – sbuffò, abbandonandosi con la schiena allo schienale della panchina.

– Hai pensato alla mia idea? – chiesi, riferendomi alla diagnosi a cui avevo pensato io.

– Sì. Ma sei stata avventata, Emma. Lascia che te lo dica. – disse, e scorsi una nota nella voce che non riuscii a comprendere.
Che voleva dire? Che avevo sbagliato? Che la pensava come il dottor Rossi?

– Cioè? – gli chiesi, assottigliando gli occhi, sperando di sbagliarmi.

– Io so che diventerai un medico eccezionale, Em. Ma devi imparare a comportarti, ancora. È normale, non lo sapevo fare nemmeno io a ventitré anni... - disse, e vedevo che stesse cercando le parole giuste per dirmi ciò che pensava senza ferirmi.

– Dici così solo perché ne hai ventinove? Credi che io sia soltanto una ragazzina? – gli chiesi, subito sul piede di guerra.
Stavo iniziando già ad innervosirmi, ma era più forte di me.

– No, assolutamente no. Ma tu non puoi dettare ordini a un dottore che nemmeno conosci. Non mi permetterei nemmeno io di farlo. E non perché abbia deciso di arrendermi sul caso di Sara, so che si tratta di qualcosa di grosso. Ma non ci si comporta così. – mi disse, e in quel momento sembrava mio padre.
È vero, lui era più grande di me e alla nostra età la differenza forse si sentiva ancora di più, ma non mi aspettavo che mi facesse la ramanzina.
In realtà nemmeno mio padre me l'aveva mai fatta: faceva fare tutto a mia madre perché sembrava quasi che lui avesse paura di me. Sapeva del casino che ero capace di fare quando mi arrabbiavo, quindi lui non si era mai esposto più di tanto. Appunto per questo, non volevo spaventare Andrea, e così cercai di starmene zitta, per una volta.

– Sì, forse hai ragione. Ma ti prego, fai di tutto affinché non la dimettano. – gli misi la mano sopra il ginocchio e lui annuì, mettendo la sua mano sopra la mia.

– Tu come stai? Parliamo sempre dei miei pazienti e mai di te. – ridacchiò lui.

– Stasera ho a cena il misterioso fidanzato di Marta. – dissi in modo teatrale, facendolo ridere.

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