LA PRIMA SQUADRA

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CAPITOLO 4

Mio padre non sopportava tanti fattori della mia vita calcistica. Non solo mi ero "permessa" di giocare a pallone, una cosa per lui fuori dal normale. Fuori da ogni schema. Ma, inoltre, e probabilmente era questo il suo dolore maggiore, avevo firmato per la Juventus. Ovviamente lui da tifoso del Napoli non poteva sopportare un simile affronto. Lui, che mi ha anche portato allo stadio San Paolo un paio di volte, lui, che ogni volta che vedeva un calciatore del Napoli si fermava per foto e abbracci, non poteva pensare che la figlia avesse firmato per la società rivale storica del Napoli. Nei suoi confronti avevo sbagliato due volte: da calciatrice in primis e da calciatrice della Juventus in secundis.

Io non sono tifosa della Juventus. Non lo sono neanche del Napoli. Molto probabilmente non tifo per nessuna squadra. Penso che una persona che ama follemente una squadra alla fine viene portato a non essere oggettivo nei confronti dello sport. Esempio: come può non tifoso di una squadra essere oggettivo nel giudicare una grande giocata di un calciatore della squadra avversaria? Purtroppo di solito i tifosi tendono a dimenticare il concetto del togliersi il cappello di fronte alle prodezze altrui. Sicuramente sbaglierò nel pensarla così. Sicuramente non tutti saranno d'accordo, ma è la mia visione. Ognuno ne ha una.

I primi allenamenti con la Juventus delle grandi non sono stati facili. Sempre più duri. Sempre più duraturi. Sempre più stressanti. Il peso della maglia lo cominciavo a sentire. Ogni giocata non riuscita, ogni occasione sbagliata in allenamento, ogni minimo errore. Sentivo tutto. D'altronde loro si stavano giocando lo scudetto e io ero un rinforzo. Non potevo sbagliare troppo. Si sarebbero fatte delle domande.

Il primo mese è stato quello più complicato. A partire dalla doccia. Una sensazione strana. A volte mi sembrava di fare la doccia con mia madre. Con tante amiche di mia madre. L'età era quella. Mi vergognavo. Le ragazze non avevano la mia età. Non erano le mie amiche. L'unica ragazza che avevo come punto di riferimento era Arianna, che era salita di categoria con me. Meno male che almeno lei fosse presente.

Cambiò tutto alla fine di marzo. Alla fine del mio primo mese in Prima Squadra. Ennesimo allenamento duro, ennesima doppia seduta. Come al solito, aspettai che tutte avessero terminato di fare la doccia prima di cominciare io a spogliarmi. Quella volta il capitano mi guardava in modo strano. Sara Gama. Una delle calciatrici italiane più forti in circolazione. Un difensore di grande talento dai piedi buoni e dalla forte personalità. Una persona dura e severa in campo, ma gentile e scherzosa fuori dal campo. Si avvicinò a me con un volto sorridente. La guardai senza capire le sue vere intenzioni. In brevissimo tempo mi ritrovai tutte le mie compagne intorno che mi invitavano a non provare vergogna. A non provare imbarazzo. Ero una di loro, benché fossi la più piccola. Mi sciolsi e poco a poco iniziai a interagire con loro. A crearmi i miei primi legami, amicizie.

Quella fu la scintilla. Quello fu l'inizio. Ci volle del tempo per abituarmi a tutto questo. Lo stesso valeva per il campo. Avevo fatto un salto incredibile per una quindicenne. Era cambiato il mondo in poco tempo. La partitella durante l'ora di educazione fisica sembrava solo un lontano ricordo. Sembrava passata una vita, invece erano passati pochi mesi. Come era cambiato il mondo. Ero passata da sconosciuta, da strana, da ragazza che si allenava da sola in casa di nascosto dalla famiglia a fenomeno, a ragazza di grandi prospettive, per alcuni addirittura a futuro della Juventus Femminile. Incredibile a volte la vita. Di fronte a me si era appena aperto un portone. Una quindicenne a cui la sorte era stata fin troppo generosa.

In campo la vita per me non era facile. Poche situazione dove potevo farmi vedere. Poche situazioni dove capitava di mostrare quello che sapevo fare. La vita per una quindicenne in campo con le grandi non è facile. Difficilmente viene servita, difficilmente riesce ad entrare nel vivo del gioco, difficilmente capita di trovarsi nella condizione di fare una giocata senza un pressing estenuante, senza la pressione di fare per forza la giocata giusta. Io ci provavo. In campo sono molto meno timida di quello che sono in realtà. Tante volte mi ritrovavo a terra, coi pantaloncini sporchi di terreno e la maglietta sudata. Tante volte mi ritrovavo senza forze e sbagliavo la giocata. Tante volte correvo a vuoto senza ricevere un passaggio. Farmi notare dalla coach era complicato, ma intanto senza saperlo crescevo, miglioravo, imparavo sempre di più il mio mestiere. Era una sorta di apprendistato. Era una piccola apprendista, una spugna che assorbiva tutto quello che succedeva in campo senza abbattersi mai. Mai mollare in questi casi. Bisogna essere testardi. Io lo ero e lo sono tuttora. Per fortuna.

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