GLI ESORDI

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CAPITOLO 3

Il mio orario scolastico finiva all'ora di pranzo più o meno. Il pomeriggio mi allenavo. La sera studiavo. Tutti i giorni tranne il sabato, la mia giornata di riposo, dato che noi giocavamo sempre la domenica. Tutto questo per avvantaggiare gli studi di chi come me era veramente piccola. Erano sacrifici che rifarei senza ombra di dubbio. Senza pensarci due volte. Le passioni sono sacrifici. Sono dure da perseguire, ma alla fine sono le più belle cose che farai nella vita. E' un prezzo da pagare.

Nei primi tempi i duri allenamenti a cui ero sottoposta insieme alle mie compagne erano veramente faticosi. Quasi mortali direi. Tornavo a casa distrutta dalla fatica in tram. O in macchina quando mia nonna veniva per "controllare la situazione".

Le prime settimane non venni mai convocata per una gara ufficiale. Mi allenavo, ma non venivo mai scelta neanche per la panchina. Era mia abitudine comunque andare allo stadio per vedere le mie compagne. Siamo una squadra. E poi era un buon modo per scappare dalla mia routine familiare, fatta di sfottò verso me e il calcio. Quando giocavano in casa, io andavo a vedere le partite a Vinovo. Quando giocavamo fuori casa, io andavo al campo per allenarmi. La prima cosa che ho imparato è stata che i campi per chi vuole allenarsi sono sempre aperti. Lo è tuttora. Per fortuna.

Il primo venerdì del mese di novembre. Non dimenticherò mai questa data. La data della mia prima convocazione. Una data che rimarrà scolpita nella mia mente. Indelebile. Marchiata.

Avevo stretto dei legami con le mie compagne di squadra. Anche per questo ero lieta di seguire le loro partite. Anzi, le nostre, perché anche se non giocavi, tu facevi parte della famiglia. Era questo uno degli insegnamenti del calcio. Dello sport.
Finito di allenarmi quel giorno fatidico, non consultai neanche la lista dei convocati. Mi spogliai, presi l'accappatoio e mi fiondai sotto la doccia. Dovevo correre a casa. Dovevo studiare. Era la mia giornata tipo. All'improvviso fui circondata dalle mie compagne. Avevano un volto scuro e minaccioso impresso in faccia. Pensai subito di aver fatto qualcosa di sbagliato.

Cosa avrò detto in allenamento da poterle ferire così?
Perché mi fissano?
Ho fatto forse qualcosa che non va?

Erano queste le domande che mi roteavano in testa. Si misero in fila davanti a me. A coppie di due. Con sguardo serio. Le prime due mi afferrarono le gambe. Cominciai ad urlare dalla paura. Le seconde due mi afferrarono le braccia. Ero nuda, spaventata e urlante dalla paura, fino a quando le altre non cominciarono a scandire a voce alta come in una canzone Congratulazioni Charlotte! In coro. Continuavo a non capire, finché non mi fecero vedere la lista delle convocazioni. Un foglio bianco con i nostri nomi con luogo, data, ora della partita di campionato il tutto scritto a computer. Accanto al mio nome un X rossa a certificare la mia convocazione. Le mie compagne mi tenevano ancora in braccio quando lessi il mio nome. Quella sera nello spogliatoio mi lanciarono in aria senza sosta. Io ho contato dieci voli. Forse mi sbaglierò. Anzi sicuramente. Quella sera non capivo un bel niente. Ero in estasi. Letteralmente quella sera non toccai mai il suolo. Io volavo senza freni e come mai prima. Per me era il raggiungimento di un sogno. Convocata alla settima giornata del campionato Primavera. Pronta all'esordio in una partita ufficiale.

Juventus - Florentia Women. La Florentia è un avversario molto duro e ostico. Una squadra brava a difendersi per poi ripartire. Una partita davvero complicata.

Il mio ruolo in campo è sempre stato un po' particolare. Gioco vicino alla punta, di fianco al nostro bomber. Sono quella che riceve palla e "inventa" come dice il nostro coach. Ho un bel tiro. Allenato nel corso degli anni a casa tramite quel pallone che raccolsi a 4 anni. Lo tengo ancora in camera mia. Lo tengo conservato lì. Come una reliquia. Come un oggetto sacro. Quante piante di mia madre ho spostato nel terrazzo dalla loro posizione, posizionandole come due pali di una porta di un campo di calcio. Mi mettevo alla distanza giusta e calciavo il pallone facendo attenzione a non rompere niente. Altrimenti come avrei potuto giustificare tali danni? Ora potevo calciare più forte che potevo, tanto non avevo più la preoccupazione di rompere qualcosa. Dovevo solo fare gol. O permettere alla mia compagna di reparto di fare gol. Siamo una squadra.

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