Twenty-two: silent fire.

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"Nella fiamma
il tempo stesso si mette a vegliare.
Sì, chi veglia davanti alla fiamma
non legge più.
Pensa alla vita.
Pensa alla morte.
La fiamma è precaria e vacillante.
Questa luce basta un soffio ad annientarla,
una scintilla a riaccenderla."
-Gaston Bachelard.

"-Gaston Bachelard

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Erano passate un paio d'ore da quello che era accaduto nella doccia tra me ed Harry, e la sera era ormai calata al di là delle finestre. La pioggia continuava a battere sui vetri, gli ululi del vento che spirava sulle strade e stormiva tra le foglie degli alberi erano accompagnati da un manto di velluto scuro, dispiegato sopra la Grande Mela in preannuncio a quelle che sarebbero state le ore di Morfeo di lì a poco. Grossi nuvoloni grigi, all'apparenza soffici ciuffi di cotone sporco, sembravano cuciti sul ventre color pece, e non mi ci volle molto a capire che, quella, sarebbe stata un'altra notte senza stelle.

«Maxine, tutto bene?» una voce delicata mi richiamò alle spalle, rubandomi dalla contemplazione del cielo.

Ero seduta sul bordo sinistro del letto della camera dei miei genitori, proprio difronte alla grande porta finestra che si apriva su un piccolo balcone, l'unico presente in tutta la casa. Da circa una quindicina di minuti ero immobile nella stessa posizione: le braccia a penzoloni tra le gambe leggermente aperte e il naso oltre il grande vetro, da cui filtravano i primi suoni e colori notturni. Anche quella stanza era immobile, da circa sei anni. Da circa sei anni i mobili erano rimasti gli stessi, nella stessa identica posizione di quella fredda mattinata d'inverno: i cassetti aperti, il letto sfatto con le coperte per metà giu dal materasso, il dopobarba di mio padre ancora aperto e poggiato sulla specchiera, e persino la vestaglia di mia madre, stesa in maniera scomposta sulla moquette color caffè.

In quella camera, il tempo sembrava essersi fermato alla mattina dell'incidente.

Tutto era rimasto come i miei lo avevano lasciato quel giorno, prima di uscire di casa, salire in macchina, imboccare la strada per il Wisconsin e compiere, a loro insaputa, l'errore più grande di un'intera vita, andando dritti in bocca a quel mostro che si nutre di vite umane ed è solito chiamarsi morte. E, con la loro, si ebbe anche la morte mia, quella di Jason. Fisicamente in due ne uscirono sani e salvi, ma interiormente... interiormente, quella mattina, non ci fu nessun superstite, anche se i medici questo non poterono constatarlo.

Una sorta di rifugio. Ecco cos'era per me la camera dei miei genitori.
Un luogo, l'unico luogo sulla faccia della terra in cui mi sentivo leggera. Non appena mettevo piede qui dentro, le mie paure si smaterializzavano completamente, i pensieri si azzeravano e la testa smetteva di pesarmi sul collo. Libera. Libera da preoccupazioni, libera dai macigni legati alle mie caviglie. La bolla in cui correvo a chiudermi ogni qual volta ne sentissi il bisogno. Le quattro mura di questa stanza erano state silenziose testimoni dei miei più grandi dolori, i mobili avevano ascoltato le mie lacrime per notti intere.
Jason, invece, non aveva più voluto metterci piede. Forse perché, mentre a me la vista del grande comodino contente le cravatte ben piegate del papà e della scarpiera angolare che la mamma usava come libreria ricuciva i dolori, mi leniva le ferite, a lui le riapriva, facendole sanguinare di nuovo. E lo capivo. Comprendevo la sua scelta e la rispettavo, così come lui rispettava la mia. Non avevo voluto cambiare nulla, avevo lasciato tutto immobile ed inerme, morto. Quando pulivo la stanza stavo attenta a schivare gli oggetti per non spostarli nemmeno di un millimetro, ed erano sei anni che quel letto non veniva rifatto. Ogni giorno l'odore di lino che si portava addosso mia madre svaniva sempre un po' di più dai cuscini, ma non potevo farci nulla. Forse quando sarebbe svanito del tutto mi sarei finalmente decisa a rifare il letto e sistemare questa stanza, chiuderla a chiave e non metterci più piede. Non ne ero sicura, però. Quello era l'unico luogo che, in qualche modo, mi permetteva di sentirmi un po' più vicina ai miei genitori, come se l'aria di questa stanza contenesse ancora i fiati caldi di mamma e papà, le particelle dei loro corpi vivi.
Era la mia dimensione, il mio posto nel mondo.
Quello che, in qualche strano modo, mi permetteva di sentirmi un po' più vicina a loro, di creare una sorta di connessione tra la terra e l'aldilà, ora luogo invidiato per ospitare privilegiatamente il bellissimo sorriso di mia madre e la risata contagiosa di mio padre.

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