Unforgettable (parte uno)

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Liverpool, 14 Ottobre 1959




Pioggia, freddo, Paul. Pioggia, freddo, Paul. Pioggia, freddo, Paul... non faccio altro che ripetermi queste parole da quando sono scesa dall'autobus. Lascio l'ombrello fradicio sul gradino e con un ultimo lungo brivido di freddo apro la porta d'ingresso dei McCartney. Il tepore ed il familiare odore di tabacco per pipa e bucato pulito mi danno subito il solito piacevole benvenuto mentre la pelle d'oca inizia a scemare iniziando dal cuoio capelluto sotto il cappellino della divisa invernale del Liverpool Institute.

«STO MORENDO!» grida in automatico Paul dal soggiorno, come le campanelle appese all'uscio dei negozi. Ha fatto la stessa cosa ieri pomeriggio. Chiudo la porta alle mie spalle sollevando gli occhi al cielo senza riuscire a trattenere un sorriso: stavolta non mi frega.

«PRESTO, DIMMI QUALI SONO I TUOI FIORI PREFERITI!» rispondo al suo grido d'aiuto sfilandomi la sciarpa.

«LE MARGHERITE DI SEFTON PARK!»

Sorrido ancora cominciando a sbottonare il cappotto. Le margherite di Sefton Park. Un bottoncino dorato con attorno tanti petali bianchi sottili, il fiore più piccolo e semplice che c'è è diventato il mio preferito. Sono quelle del prato dove ci siamo baciati la prima volta e sempre quelle che mi porge o mi infila tra i capelli ogni volta che ci andiamo. Ondeggiano ridenti tra i fitti fili verdi e c'è sempre qualcosa di Paul che le accompagna: le sue dita che le accarezzano, ci giocherellano o le colgono per me, le sue morbide labbra che le trattengono con stupido fare seducente, il suo viso seminascosto dietro le corolle quando ci sdraiamo, le nostre scarpe vicine incorniciate da questi puntini bianchi e gialli quando guardiamo le anatre sguazzare nel lago. E sono selvatiche, libere.

«AMORE, SBRIGATI A DARMI IL BACIO D'ADDIO!»

«Arrivo, arrivo... un attimo...» borbotto tastandomi la fronte per controllare che le treccine sulle tempie stiano ancora tenendo in ordine la fastidiosa frangia troppo cresciuta.

«LA MORTE NON ASPETTA!»

«Che angoscia, Paul!» commento inorridita aprendo la bianca porta del piccolo guardaroba davanti alla scala per appendere cappotto, sciarpa e cappello umidi di pioggia.

«LA FEBBRE... TRENTASETTE E MEZZO!»

«Accidenti, allora non farò in tempo ad arrivare lì! Ti amo, amore mio, fai buon viaggio! Ci incontreremo ancora, in un giorno di sole!»

«ANNE!».

Sghignazzo al suo grido adesso davvero disperato, forse pensando che io stia andando via. Quando mi affaccio cauta in salotto il cuore mi si scioglie. É seduto sulla poltrona davanti al camino acceso, per colpa della pesante coperta che lo avvolge riesco a vedergli soltanto la testa mora arruffata all'inverosimile. Il viso è smunto, la pelle pallida, le labbra imbronciate, il piccolo naso è così rosso da farlo sembrare un pagliaccio.

«Io sto morendo e tu ridi, amore?!» mi accusa con voce incredibilmente lamentosa. Gli occhi lucidi e stanchi mi guardano supplicanti, grandi e bisognosi di rassicurazione. Tutta la sua figura mi rimanda nella mente un morbido cucciolo di cane ed una morsa al petto mi fa sorridere scioccamente sentendo l'impellente bisogno di abbracciarlo.

«Scusa, ma sei davvero troppo tenero» gli spiego poggiando la tracolla della scuola a terra senza riuscire a smettere di guardarlo.

«Io sto malissimo, non sono tenero»

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