Zio Connor era così antipatico. Papà diceva che in realtà quello era il suo carattere e che in fondo non era poi così cattivo. Ma Leah non era per nulla d'accordo. C'era qualcosa di strano in lui, dai capelli quasi assenti fino alla punta delle scarpe rovinate. E poi, a volte non sembrava nemmeno essere suo zio. Non perché non le assomigliasse, che di certo, anche quello sarebbe stato un ottimo punto sul quale discutere visto che non assomigliava nemmeno a sua madre, da quanto deduceva dai racconti del padre, siccome doveva essere suo fratello, ma proprio per quanto riguardava il suo orrendo comportamento.
La appellava molto spesso con epiteti molto poco carini, che a lei non facevano affatto piacere. Ma Frank, per quanto sembrasse infastidito ogniqualvolta quell'uomo chiamava sua figlia "disgraziata", non faceva mai nulla. Si limitava a digrignare i denti ed a chiudere le mani a pugno, fino a far divenire le nocche bianche. Nulla di più. Perché non interveniva? Perché lasciava che la piccola venisse ferita da quelle parole così pesanti da sopportare per lei? Leah non lo sapeva, sapeva solo che avrebbe voluto far scomparire lo zio all'istante. Ma non poteva, doveva solo sopportare...
Chissà cosa avrebbe detto la madre mentre vedeva suo fratello trattarla in tal maniera. Non avrebbe potuto nemmeno immaginarselo, lei, sua madre non l'aveva mai vista. Era a conoscenza a malapena del suo nome: Eirene. Significava pace, in Greco antico.Era un nome molto particolare, ma la bambina lo trovava molto delicato. Frank non le aveva mai raccontato molto a riguardo, era riuscita a capire da lui soltanto che la genitrice non c'era più, e che scomparve quando Leah nacque. Non provava nemmeno ad affrontare l'argomento con lo zio, loro due non avevano mai avuto un vero dialogo, le faceva paura e lo detestava. Quando però quest'ultima provava a chiedere qualcosa in più al padre, vedeva le sue palpebre sbattere più velocemente, e la sua voce farsi sempre più rotta, per poi vederlo cambiare rapidamente discorso. L'uomo, dal canto suo, riconosceva il fatto che era naturale che la figlia gli chiedesse ciò, e che un giorno avrebbe dovuto raccontarle la verità, ma procrastinava sempre, rimandando la questione.
Così facendo non sapeva che alimentava la speranza della dolce pargoletta dagli occhi azzurri, di vedere la tanto misteriosa madre. Da quel poco che suo padre aveva lasciato trapelare, egli la riteneva una specie di Dea, dal viso armonioso e dalla voce soave. Chissà se aveva ereditato i suoi stessi occhi azzurri, che di certo non aveva preso dal genitore, i quali erano neri come la pece.A questo purtroppo non c'erano risposte, o meglio, c'erano. Ma Frank non voleva rivelare nulla, come se fosse un enorme segreto, o semplicemente un grande dolore insuperabile. Leah lo aveva capito. Egli quando sentiva solamente pronunciare "Eirene", in qualsiasi contesto, in qualsiasi occasione, mutava. Nel peggiore dei casi sembrava che la morte s'impossessasse dei suoi occhi, il ricordo intrappolasse la sua mente, e una morsa sconosciuta lo immobilizzasse, mandandolo come in tilt per un paio di secondi. Faceva quasi paura. Ecco perché anche lei, col passare del tempo cercava di fargli sempre meno domande, anche se la curiosità era tanta, come d'altronde era normale per una bambina di sei anni.
«Disgraziata di una mocciosa! Tieni sempre le tue robacce in giro! Ringrazia il Signore che non te le ho già bruciate tutte!» ed eccola, la solita tiritera che la accompagnava quasi ogni giorno. Ma lei cosa poteva farci, quella, almeno finché le cose non si sarebbero sistemate - a detta di suo padre - era anche casa sua.
Erano passati solo tre mesi da quella volta che aveva messo piede nella stazione di Boston, per prendere quel treno che la avrebbe portata proprio lì, a Worcester, in casa - se così si poteva definire - dello zio Connor. E chissà quanto altro tempo sarebbe dovuto ancora passare, prima che il padre e la figlia tornassero nella propria abitazione.
Odiava quell'appartamento, era piccolo e sporco.Tutto era concentrato in un piccolo salotto con dei fornelli. La cucina e il salotto, quindi, erano tutt'uno.
Le pareti erano tappezzate di grigio, la moquette blu, ormai era sudicia e piena di polvere, briciole di qualche strano cibo e macchiata di chissà che bevanda. Le piccole finestre erano ricoperte di un sottile strato di polvere, e alcune pure crepate. Il divano blu, per due persone, era sfondato, con l'imbottitura che in certi punti usciva attraverso piccoli buchini. Davanti ad esso un tavolino occupato da cartoni di pizza e lattine di varie bevande. C'era anche una piccola tv, all'angolo della stanza.
Per non parlare dell'angolo cottura, dove la moquette s'interrompeva bruscamente per lasciare spazio a un pavimento con delle piastrelle bianche, ovviamente si fa per dire.
Il piano cottura, meglio non parlarne, i piatti lerci trasbordavano dal lavandino e le mosche avevano trovato lì una comoda sistemazione. Le altre uniche stanze che erano separate e che permettevano un po' di privacy erano il bagno e la stanza da letto. Anch'essi, senza stare qui a dirlo, mantenuti in maniera pietosa.
Non sapeva perché fosse lì, ma ogni minuto di più la sua voglia di scappare aumentava.
Rammendava i momenti trascorsi a Boston, nel suo piccolo appartamento sola, con Frank. Oh, e quanto avrebbe voluto tornare indietro a quei giorni.Probabilmente, le mancava un po' pure la scuola, che qui frequentava saltuariamente, per vari problemi. Non che non le dispiacesse, ma piuttosto che stare in compagnia di quell'ubriacone di Connor, sarebbe stata volentieri anche a scuola. I suoi compagni non facevano altro che domandarle della sua famiglia, di sua madre, e lei non rispondeva mai. Innanzitutto perché aveva espressamente l'ordine di non farlo, e poi perché non voleva di sua iniziativa.
Di amiche, nessuna. Un po' le mancava Emy, la quale aveva smesso di sentire da quando era partita. Invece lì Era sempre sola mentre passavano i minuti della ricreazione. Le uniche in grado di farle compagnia erano le coccinelle e le chiocciole che passavano per i muretti del cortile, durante l'autunno e la primavera. In inverno però, rimaneva sola. Veniva ignorata da tutti durante la ricreazione. Cosa aveva di tanto sbagliato? Come facevano a sapere se fosse antipatica o meno, dal momento in cui non le avevano mai rivolto la parola, se non per domandarle della propria famiglia? Non le avevano mai chiesto "come stai?" Ma soltanto "Ma tu un papà o una mamma ce li hai?" "Perché non ti viene mai a prendere tua mamma?"Lei non rispondeva mai, e così, nessuno le domandava più nulla.
Lei una mamma ce l'aveva! Un giorno sarebbe venuta a prenderla a scuola, e le avrebbe dato un bacio sulla guancia, proprio come facevano le altre madri con i propri figli. Eirene non era ancora arrivata, ma lo avrebbe fatto. Frank le diceva sempre che lei era una bimba speciale, e che sicuramente, un giorno, la bella genitrice sarebbe venuta da lei.
Ma per ora avrebbe solamente voluto trovare qualcuno con cui giocare.
Quella paura di essere rifiutata, la sua timidezza, generavano automaticamente in lei la paura di farsi avanti, e di conseguenza le cose non miglioravano.Ad un tratto sentì come una bottiglia di vetro cadere a terra. Si precipitò immediatamente in salotto, dove si trovava Connor.
«Ah eccoti piccola rompipalle! Fai sparire subito dalla mia vista questa immondizia! VELOCE!» tuonò il grasso uomo. Guardò a terra, i vetri di una bottiglia di birra. La bimba tremò, e presa dal timore iniziò a raccogliere i suoi due pupazzi, sul divano, i quali lei aveva avuto solo la colpa di lasciare sul divano.
All'improvviso Frank uscì dal bagno e corse in salotto. Leah gli si precipitò addosso, con gli occhi lucidi, nascondendo la testa contro la sua gamba, con i due pupazzi tra le mani.
«Dai Connor, ti prego, lasciala in pace. È solo una bambina» intervenne, mentre accarezzava i capelli della figlia. Era l'unica cosa che in quel momento poteva fare. Avrebbe voluto picchiarlo, quando la trattava così, ma non poteva. Cercava di calmare le acque, non voleva e non poteva mettersi contro Connor, anche se Leah era la cosa più importante della sua vita, e non se la sentiva di permettere tutto ciò, prima o poi sarebbe imploso su se stesso, colmo di rabbia repressa verso quel mostro.«Non mi interessa babbeo. È solo d'intralcio. Tra un po' arriva gente, non posso avere queste robe in giro. Intesi?» esordì grattandosi la pancia.
«Sì» replicò secco l'altro, ormai rassegnato.
«Su Leah, andiamo in stanza.»
La piccola si staccò dal padre e lo seguì nella stanza da letto. Sarebbe dovuta rimanere lì, con lui, fino alla mattina successiva. Erano solo le otto di sera. Non aveva voglia di dormire!
Ma succedeva spesso...
Lei e suo padre si rinchiudevano, letteralmente, in camera da letto a dormire, lasciando Connor in salotto. La bambina non sapeva perché, ma i motivi erano assai evidenti.
Connor Miller, teneva abitualmente delle feste mondane a casa sua, le prostitute e gli uomini del giro erano ospiti abituali, insieme a varie sostanze stupefacenti.
L'arrivo del "babbeo" e di sua figlia non avevano di certo giovato alla situazione. Ma la loro presenza in quella casa era obbligatoria.
Così, Frank, per proteggere la figlia da tale "spettacolo", decideva di chiudersi insieme a lei dentro quella minuscola stanza, lasciando Connor ai suoi affari.
Il motivo di tutta questa segretezza, della stanza nella quale doveva stare, del misterioso trasferimento repentino, di perché il padre non la proteggesse da quell'orco, di perché Eirene se ne fosse andata, Leah lo avrebbe scoperto solo molti anni dopo.«Su piccola, vieni a dormire» la incitava il padre, seduto sullo scomodo letto singolo.
La bambina Annuì. Ormai aveva imparato a non chiedere più il perché.
Strinse tra le braccia il suo fidato Bobby, e si rannicchiò tra le braccia del padre.
Lui le posò un bacio sul capo, prima di darle la buonanotte.Tuttavia, quella notte Leah non riuscì a dormire, aveva gli occhi aperti, disturbata da urla, bottiglie scaraventate a terra, e strani gemiti.
Non voleva più vivere così.
Ad un tratto, quando per l'ennesima volta cercò di chiudere le palpebre, un paio di occhi blu comparvero in mezzo al buio. Erano gli occhi dello Sconosciuto.
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Quegli Ultimi Cent'anni
Ficción GeneralBoston, 2005. La stazione dei treni è piena di gente, Leah e suo padre fanno fatica a farsi spazio tra la folla, ma devono sbrigarsi, il treno diretto a Worcester è in partenza tra cinque minuti. All'improvviso il caos, le persone iniziano a spostar...