19. Nelle viscere della terra

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Camminiamo fino ad arrivare a un massiccio cancello nero in ferro battuto, chiuso da un grande lucchetto arrugginito. L'inferriata riccamente decorata circonda il castello su tutti i lati e il maniero è appena visibile al di là di tutte le figurine metalliche che danzano nel loro eterno girotondo intorno a esso.

Avvicinandomi non posso non notare che tutto il cancello è in parte arrugginito e versa in uno stato di decadente abbandono. Deve essersene accorto anche Rohkeus, perché scuote la testa come se non potesse credere a ciò che vede e poi domanda, rivolto alla strega: — Non capisco, non ci vive più nessuno?

— No, da circa tre secoli — risponde lei calibrando le parole, come se temesse la reazione del mezzelfo. Lui si immobilizza, congelato sul posto.

— Perché non me lo hai detto subito? Ci saremmo evitati una scenata — afferma infine con voce stanca.

— Rohki, non ti avrebbe comunque riconosciuto nessuno: è passato tanto di quel tempo che ormai tutti quelli che ti conoscevano sono morti da secoli.

— Tranne te e le altre streghe — precisa lui e Huba non può che dargli ragione.

Dalle voci pacate capisco che si sono rappacificati, pur senza essersi scambiati nemmeno una parola di scuse, come se si fossero letti dentro a vicenda lungo il tragitto e avessero compreso così le ragioni dell'altro. Come è possibile che abbiano ancora tutta questa affinità benché non si vedano da quattrocento primavere?

— Entriamo? — chiede la strega e questa volta aspetta il consenso dell'amico prima di rompere il lucchetto con un lieve tocco delle dita, da cui si sprigionano scintille. Il cancello si spalanca con uno stridio sinistro che mi fa rabbrividire, ma si tratta solo di un castello abbandonato, niente di paragonabile a quello che ho già passato, quindi mi faccio coraggio e avanzo a testa alta.

Ora che posso vedere il maniero in tutta la sua imponenza noto che è praticamente identico a quello di Rohkeus all'inferno ed è altrettanto silente e immobile. Le sue finestre sono nere e senza vetri e mi guardano come le orbite vuote di un teschio.

— Cosa è successo? — osa chiedere infine Rohkeus, fissando come me il castello. Chissà come lo vedono i suoi occhi, che sicuramente ne ricordano una versione diversa e non attraversata da questo alito di morte.

— Intendi dopo che hai fatto quel che hai fatto e sei sparito? Eristys e il re sono morti, assassinati. A quel punto tutti i parenti vicini e lontani e i consiglieri hanno cominciato a farsi la guerra tra di loro pur di avere il trono, mentre fuori i ribelli facevano la guerra a chi stava nel castello per ottenere una democrazia paritaria. Mi ricordo le loro urla, che sbandieravano tutto il disprezzo che il popolo provava per una monarchia a cui interessava solo avere il potere per il gusto di averlo, ma che poi non era in grado di usarlo per il bene dei sudditi. — Huba fa una pausa, prima di continuare. — O almeno, questa è la versione ufficiale. Io sono convinta che in realtà Eristys si sia suicidato.

— Come puoi esserne sicura? — domanda il mezzelfo con espressione cupa.

— L'ho visto cadere da una finestra della torre, mentre io e Vilpiton ti stavamo cercando.

— Potrebbe essere stato spinto.

— Sì, ma la porta era chiusa a chiave dall'interno. E poi, perché ucciderlo così, all'improvviso? La rivolta non era ancora cominciata.

— È sempre un buon momento per uccidere l'erede al trono — afferma il mezzelfo, cupo.

Parlano la mia lingua, ma se avessero usato la loro sarebbe stato lo stesso perché non capisco di cosa stiano discutendo. Si comportano come se non ci fossi, facendomi sentire esclusa, e non lo sopporto. Se non hanno intenzione di rendermi partecipe allora mi stanno solo facendo perdere tempo e quindi mi avvio a passo deciso verso il portone di legno con intarsi d'oro annerito.

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