34. Ciò che amore non è

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Riporto gli occhi sulla porta di cristallo, cercando disperatamente un'idea. Iris prova a prenderla a spallate, ma l'unica cosa che ottiene è di farsi male. No, così non può funzionare, con la forza bruta non otterremo nulla.

Come colpita da una rivelazione, estraggo il coltello che avevo legato alla gamba e punto l'estremità sottile e affilatissima al vetro: se solo riuscissi a incrinarlo poi, con un colpo ben assestato, potremmo infrangere tutta la superficie.

Do dei colpetti sull'impugnatura, che riverberano su tutta la lama. Dapprima non succede nulla, ma al secondo tentativo una minuscola crepa si delinea sul cristallo, tanto piccola che all'inizio temo sia solo frutto della mia immaginazione. Tuttavia, dopo un paio di altri colpi comincia ad allungarsi e allargarsi, figliando altre crepe biancastre come se del latte si stesse infiltrando nel cristallo, finché tutta la porta sembra ricoperta da una ragnatela e, sotto un ultimo colpo, cede andando in mille pezzi.

Mentre le guardie ci raggiungono, corriamo oltre la cornice aguzza che è ciò che resta della porta e ci ritroviamo su un ballatoio largo tre o quattro passi, limitato da una balaustra riccamente decorata. Mi precipito verso di essa e mi ci aggrappo, ma Iris mi viene addosso senza riuscire a fermarsi. Il sottile sostegno di vetro si crepa e ci ritroviamo a precipitare di sotto, sbattendo violentemente sul pavimento.

La caduta non è molto lunga, ma comunque, non appena atterro, una scia di stelle luminose mi offusca la vista, mentre stille di dolore bianco mi attraversano il corpo a partire dal gomito sinistro. Mi sollevo il più in fretta possibile, cercando di trattenere i conati di vomito che all'improvviso mi stringono lo stomaco.

— Iris, stai bene? — domando subito, preoccupata, ma non appena mi volto verso mia sorella noto che si è già messa a sedere e ora i suoi occhi sconvolti sono fissi su qualcosa davanti a lei. Giro lo sguardo nella stessa direzione e per un eterno e magnifico istante non riesco a comprendere cosa abbiamo davanti agli occhi; poi quell'istante finisce e un sudario nero mi cala sul cuore.

Su un letto a baldacchino enorme e dalle lenzuola nere come il peccato si muovono frenetiche due figure, una candida come la neve e l'altra tanto scura da fondersi con le coperte, entrambe nude. La prima sovrasta la seconda, mostrandoci le natiche pallide e la schiena ossuta sulla quale scorrono fameliche mani del colore di una notte senza luna.

Mugolii e gemiti si sollevano dai due corpi intrecciati, che continuano nella loro danza macabra e carnale come se non si fossero accorti di niente fino a quando alcuni corvi cominciano a volteggiare sopra le nostre teste, gracchiando arrabbiati e scendendo ripetutamente in picchiata verso di noi salvo poi schivarci all'ultimo minuto. Io però non faccio nulla per scansarmi, poiché ogni fibra del mio corpo è tesa verso quell'orribile spettacolo. Seguo con lo sguardo la linea elegante della colonna vertebrale del ragazzo dalla pelle bianca, che sale fino al collo per poi tuffarsi sotto una chioma di capelli plumbei, di solito ordinatamente pettinati e ora sconvolti, anche se mai quanto me.

All'improvviso la donna sotto di lui si ferma e si drizza a sedere con uno scatto, puntandoci con i suoi occhi rosa pungenti e vacui, come se non stesse guardando noi ma qualcosa oltre la nostra presenza fisica, come se stesse scrutando la nostra anima. Quello sguardo mi incatena sul posto, infondendomi un terrore che si diffonde nelle vene e che mi priva di ogni forza di volontà.

Intanto le guardie si affollano sul ballatoio sopra le nostre teste, ma le percepisco solo come ombre fuggevoli perché i miei occhi sono fissi su Alveus, che si volta verso di noi con un movimento rapido, coprendo le sue vergogne con un lembo del lenzuolo non appena ci riconosce.

Con la coda dell'occhio intravedo Iris arrossire e distogliere gli occhi imbarazzata, ma per quanto lo desideri io non riesco a fare lo stesso. Il mio sguardo scorre con orrore sul suo corpo pallido e magro, cercando un segno che mi mostri che non si tratta davvero di lui, del mio Alveus, ma di un surrogato tremendamente somigliante.

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