5. Nel deserto

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È parecchio ormai che cammino e le gambe cominciano a farmi male. A ogni passo nuove pietruzze si conficcano nelle piante dei miei piedi nudi e in certi momenti mi pare di avanzare su una distesa di spilli. In altri invece non sento più nulla, come se il troppo bruciore avesse anestetizzate le ferite.

Per brevi tratti riesco a levitare, ma troppo spesso sono costretta a rimettere i piedi per terra, maledicendo questa insulsa capacità delle ninfe che ci permette di sollevarci da terra per qualche istante ma non di volare davvero, una sorta di magia a metà.

Se solo avessi ancora il mio potere potrei guarirmi in un attimo, invece non mi resta che sopportare in silenzio. La rabbia mi cresce nel petto a ondate e vorrei potermela prendere con qualcuno che non sia me stessa.

Sarei disposta a qualunque cosa pur di riavere indietro la mia magia curativa, davvero qualunque cosa.

Contraggo i muscoli della mascella, nel tentativo di ricacciare indietro questo desiderio insano, che è il motivo per cui ora sono all'inferno, per cui Alveus è all'inferno per colpa mia. In fondo me lo merito di provare un po' di sofferenza.

Anche mentre lo penso, però, non ne sono realmente convinta. Da qualche parte nella mia testa, c'è una vocina che mi assolve, che mi ripete che non è certo colpa mia se la natura con me è stata crudele. Se avessi avuto un potere come tutti, non avrei avuto bisogno di contrattare con un demone. Davvero posso essere condannata per aver desiderato di essere normale?

Una pietra più aguzza delle altre mi si conficca nel piede, facendomi gemere di dolore. La tolgo con la mano e, una volta caduta, le tiro un calcio stizzito, mandandola il più lontano possibile.

Vorrei sedermi e riposarmi un po', ma non posso: ho già perso buona parte del mio primo giorno inutilmente, come il segnatempo sul braccio non manca di ricordarmi. Prima o poi dovrò fare una pausa, ma è ancora troppo presto. Posso farcela ad andare avanti.

Il paesaggio intorno a me non è minimamente cambiato e, se non avessi la certezza di aver obbligato i miei piedi a fare un passo dopo l'altro, penserei di non essermi mossa.

Stringo i pugni lungo i fianchi e poi rilasso le dita, e questo gesto riesce a sciogliere almeno un po' la tensione.

Di solito era Alveus che, a fine giornata, mi massaggiava i muscoli contratti, passandomi le sue mani calde sulle spalle e riuscendo così a farmi rilassare. Il ricordo del suo sorriso illuminato dalle candele mi fa accelerare il passo. In questo momento vorrei che fosse qui, a dirmi che posso farcela perché sono forte e lui crede in me. Se lo facesse guardandomi negli occhi, potrebbe quasi convincermi.

Se ripenso a quante primavere ci sono volute prima che mi accorgessi davvero di lui, mi sento più che mai stupida. Ci conosciamo da sempre, abbiamo passato l'intera infanzia a giocare insieme, costretti dalle nostre madri. O quantomeno, io non avevo scelta. Penso però che a lui facesse piacere passare il suo tempo con me e Iris, non se n'è mai lamentato e ci accoglieva sempre con gioia.

Crescendo, ho cominciato a evitarlo, finché un giorno di qualche primavera fa lui è caduto su un ramo appuntito mentre aiutava sua madre a sistemare il tetto e si è squarciato il fianco. Ovviamente, sono stata io a guarirlo. La ferita era molto brutta e sono stata costretta a tornare più giorni, e tutte le volte che entravo nella sua camera lui era lì, che mi guardava con occhi fiduciosi. Lui credeva in me, ci credeva davvero, e la sua stima non faceva altro che attizzare un fuoco che chiedeva solo di essere alimentato.

La sua fiducia in me aumentava anche la mia, di fiducia nelle mie capacità, e con essa le capacità stesse. Mi faceva sentire più forte, migliore. Immagino sia questo che fa l'amore.

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