23. La mano della spada

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A farmi riprendere i sensi è uno schiaffo energico in piena faccia, accompagnato da un sonoro: — Ninfa!

Apro gli occhi di scatto, tanto che Rohkeus non riesce a fermare la mano in corsa e mi colpisce sull'altra guancia.

— Sono sveglia, sono sveglia, basta! — lo blocco poi, tirandomi a sedere. Le mie mani affondano in una sostanza melmosa e viscida, che, quando abbasso lo sguardo, si rivela essere fango. Per la precisione una distesa immensa di fango, che si allarga in tutte le direzioni fin dove l'occhio può spingersi. Una luce azzurra tremolante proviene da quello che dovrebbe essere il cielo, ma che sembra invece fatto di acqua, come se fosse un lago al contrario. Il mondo in cui ci troviamo ora appare a tutti gli effetti bicromatico: marrone sotto, azzurro sopra.

— Cos'è successo? — domando, concentrandomi sul mezzelfo davanti a me.

— Non lo so, sono sprofondato nell'acqua del lago tanto a lungo che ero convinto sarei morto per davvero e poi devo aver perso i sensi, perché quando sono tornato consapevole mi sono trovato qui, nella melma.

— Hai visto qualcosa, mentre affondavi?

Alle mie parole la sua espressione si incupisce, gli occhi adombrati dalle folte sopracciglia.

— Credo di sì — mormora. — Anzi, ne sono convinto, ma non so cosa. È un po' come la sensazione di avere una parola sulla punta della lingua, la consapevolezza di conoscere un termine, ma comunque non riuscire a ricordarlo.

— A me il lago ha mostrato una scena della tua vita al castello, con il re tuo zio.

— Cosa? Cosa hai visto? — chiede concitato, afferrandomi per le spalle e dandomi uno scossone, cercando di farmi uscire le parole subito, con la forza. Gli racconto brevemente la visione che si è dispiegata sullo specchio d'acqua, tentando di essere il più precisa possibile. A ogni mia parola il suo volto si fa sempre più confuso e perso.

— Ti dice qualcosa? — domando gentilmente alla fine, posandogli una mano sul braccio.

— È una situazione possibile, potrebbe benissimo essere accaduta davvero, ma non la ricordo assolutamente. Per quanto mi sforzi è come sbattere la testa contro un muro. Penso che il lago si sia cibato della mia memoria...

— E quando sono sprofondata io, hai visto qualcosa? — azzardo, timorosa di cosa potrebbe aver scoperto sul mio conto che invece io ora ho dimenticato. Mi chiedo quale parte di me sia andata perduta per sempre.

— Nulla, credo che fossi già svenuto.

Tra noi cala il silenzio, interrotto solo da un uggiolio di Gordost, sdraiato al mio fianco. Non so dire se sarebbe stato meglio o peggio se lui avesse visto; da una parte sono sollevata, dall'altra invece sento stringersi il cuore perché vorrei che qualcuno mi restituisse il ricordo, raccontandomelo come io ho fatto con Rohkeus. Mi alzo in piedi, cercando di non pensarci.

— Andiamo, il tempo stringe — lo sprono, mentre comincio a tirare su la manica, ma mi fermo prima di guardare il segnatempo. Ho paura di quello che potrei vedere: non ho idea di quanto a lungo siamo stati svenuti, per quanto ne so i miei giorni potrebbero essere già scaduti.

Alla fine mi faccio coraggio e abbasso gli occhi sull'avanbraccio. Non appena il mio sguardo sfiora la pelle marchiata, il mio cuore perde un battito: il decimo e ultimo giorno è iniziato e io, nonostante tutta la strada percorsa per arrivare fino a qui, mi sento lontana da Alveus come non sono mai stata. Scruto l'orizzonte, sperando stupidamente di vederlo avvicinarsi a noi in mezzo a questo mare di fango, ma a parte qualche albero rachitico in lontananza il mondo che ci circonda è piatto come una tavola.

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