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Edith

Heath mi aveva dato appuntamento davanti al Saturn per l'una meno un quarto, ma di lui non c'era alcun segnale. L'orologio al polso segnava ormai le due, e nel parcheggio non c'era traccia della sua presenza. Sospirai, passandomi una mano tra i capelli, e dopo essermi controllata intorno un'ultima volta, decisi di entrare: infondo era un mio problema, quello che avrei dovuto risolvere, e non mi occorreva il suo contributo. Potevo farcela da sola.
Mi avvicinai alla porta metallo, tirai fuori una banconota da dieci dollari e la consegnai al bodyguard, che mi lasciò un timbro sull'avambraccio e si spostò di lato per farmi passare. Osservai il disegno nero a forma di Saturno, che la mia pelle aveva già assorbito rendendolo più simile ad un ovale, ed entrai.
Non appena varcai la soglia del locale, una barriera di fumo, simile alla nebbia, mi ostacolò la vista e mi fece socchiudere gli occhi.
Armandomi di pazienza, passai tra i corpi stipati e sudati di centinaia di persone, che mi spostarono a destra e a sinistra come se fossi una pallina da ping pong. Che benvenuto.
Una ragazza ubriaca mi cadde addosso, versando il suo drink sulle mie scarpe, e io la restituii ai suoi amici con una spinta. Imprecai e, sbuffando, mi diressi verso al bancone che riuscii ad intravedere, quasi fosse un miraggio, alla fine della pista. Individuai anche tre barman in lontananza, quindi percorsi gli ultimi metri che mi dividevano da loro provando a cercare Ivor: l'ultima volta che ci eravamo visti aveva i capelli corti, e soltanto adesso mi rendevo conto che quel dettaglio fosse insufficiente per riconoscerlo.
Mi sedetti sullo sgabello libero vicino al bancone e mi maledii per non aver accettato il cellulare che Heath aveva provato a regalarmi, dato che il mio era stato ufficialmente dichiarato inutilizzabile. Se lo avessi preso avrei potuto chiamare Ivor che, riflettendoci, avrebbe potuto anche essere tornato a casa: di fatto, il suo turno era terminato un'ora prima, e io non mi ero presentata all'incontro perché stavo aspettando Heath, perciò era probabile che avesse tagliato la corda.
Mi passai una mano tra i capelli, che rimasero incastrati tra le dita, e mi innervosii ancora di più, se possibile: erano passati solo pochi minuti da quando avevo messo piede lì dentro, e già erano divenuti un ammasso appiccicoso ed informe. Ottanta dollari buttati al vento, grandioso. Ma tanto sono ricca sfondata, no?
«Scusa!» Alzai un braccio richiamando l'attenzione della barman che stava togliendo dei cubetti di ghiaccio dal sacchetto che teneva tra le mani.
«Un secondo.» Mi fece un gesto breve ed indefinito, e io annuii cercando nuovamente con lo sguardo Heath, che evidentemente si era dimenticato di me.
Una risata isterica abbandonò le mie labbra. Ero arrabbiata, e non poco. Non avrei dovuto accettare il suo aiuto, però aveva insistito così tanto che alla fine avevo ceduto. La parte più razionale di me aveva tentato di avvisarmi, perché era improbabile che un ragazzo si assumesse spontaneamente una responsabilità di quello spessore, eppure avevo finito per riporre molte speranze in lui, che invece mi aveva ripagata con un due di picche. Non soltanto era stato petulante, costringendomi ad accoglierlo nella mia disavventura, ma Heath si era anche intromesso in una situazione più grande di lui senza rifletterci sul serio: ha almeno la vaga idea di cosa implichi la sua promessa? Mi domandai.
Ogni azione aveva un peso importante, e ad ognuna corrispondeva una conseguenza altrettanto seria, quindi era bene non giocarci. Tirarsi indietro era stato scorretto da parte sua, specialmente perché aveva significato lasciarmi senza un alibi qualora le cose si fossero messe male: Heath aveva pensato a questo?
«Cosa ti porto?»
La ragazza che avevo chiamato sventolò una mano davanti ai miei occhi e io scossi il capo, ritornando alla realtà.
«In realtà cerco Ivor Blake. È ancora qui? Potresti chiamarlo?» Le sorrisi, ma lei non ricambiò, accigliandosi.
«Perché lo cerchi?» Incrociò le braccia al petto, rivelando la serie di tatuaggi incisi sulla sua pelle.
«Sei uno sbirro?»
Fu il mio turno di aggrottare le sopracciglia. «Eh...No.» Replicai scettica. Se anche fossi stata una poliziotta in borghese, non glielo avrei certamente rivelato.
«Ivor Blake mi ha dato un appuntamento qui, per una questione personale.»
«Personale quanto?»
«Non mi sembra siano affari tuoi.»
Tagliai corto, perché stava chiaramente invadendo la mia privacy, quindi saltai giù dallo sgabello e me ne andai senza salutare. Quanta strafottenza. Soltanto perché aveva molti tatuaggi e mi aveva guardata in cagnesco, non mi sarei fatta intimorire a tal punto da spifferarle i miei affari. Avrebbe potuto semplicemente andare a chiamare il suo collega invece di giocare alla detective.
Mi incamminai arrabbiata verso l'uscita del locale, ma qualcuno mi afferrò per il polso e mi tirò indietro. Il mio primo istinto fu quello di urlare, però nessuno mi avrebbe sentito con quel frastuono, quindi feci scivolare velocemente la mano libera nella tasca della gonna ed estrassi un coltellino, che ebbi intenzione di infilare nella coscia di chi mi aveva aggredito. Provai a farlo, più che altro, dato che venni nuovamente bloccata.
«Ma che cazzo ti prende?! Sono io.»
Mi voltai di scatto, fissando gelidamente i suoi occhi, e mi strattonai dalla sua presa. «Perché te ne stai andando? Avresti dovuto chiamarmi.»
Ivor alzò il volume della voce, perché la musica era troppo alta per sentire con chiarezza, e si avvicinò. Disse ancora qualcosa, che non compresi, e arricciai il naso quando il suo alito invase il mio spazio personale: Blake puzzava tremendamente di alcool, i suoi occhi chiari erano lucidi e rossi, palese manifestazione del suo stato di ebrezza. Nonostante ciò, notai con piacere che il sorriso fosse rimasto lo stesso di sempre, anche se il suo fisico aveva subito una metamorfosi non indifferente. Adesso era molto più muscoloso ed imponente rispetto l'anno precedente.
«Ho chiesto alla tua collega, infatti. Ma non mi è sembrata disponibile a cercarti.»
Il flusso di persone continuava a stringersi intorno a noi, soffocandomi, perciò per evitare di fare del male a qualche innocente, riposi il coltellino in tasca e rilassai le spalle.
«Perdonala, è una serata difficile.» Quindi si è ubriacato per l'occasione?
«Pare che qualcuno abbia fatto la spia, e che il party potrebbe sfociare in un fottuto casino.» I suoi occhi saettarono per la stanza alla ricerca di qualcuno, ma la sua attenzione ritornò subito su di me.
«Seguimi.»
Mi prese per il polso per evitare che lo sciame di ragazzi mi trasportasse via mentre si scatenavano e, invece di strattonarmi dalla sua presa come avrei sicuramente fatto in un'altra occasione, mi lasciai trascinare.
Il fatto che qualcuno avesse fatto la spia con la polizia mi aveva messo parecchio stress e agitazione in corpo, però confidavo in Ivor. Lui conosceva parte della mia storia ed ero certa che non avrebbe messo a rischio la mia incolumità, ricevendomi in posti poco sicuri solo per ricavarci un po' di soldi.
«In che senso qualcuno ha fatto la spia?» Provai ad indagare.
«Meno sai, meglio è.»
Due minuti più tardi ci eravamo allontanati dalla musica, che era diventata ovattata, e ci eravamo chiusi in uno stanzino arredato con una sedia e una piccola scrivania di legno. Quest'ultima era sotterrata da documenti, e supposi che fosse l'ufficio del Saturn.
«Perché mi hai portato qui?» Gli domandai guardandomi intorno, notando che non ci fosse stato il materiale necessario a produrre una carta d'identità e un passaporto falsi.
«Perché hai detto a Atkinson di te?» Ivor infilò la mano in una scatola nera, ignorando la mia domanda, ed estrasse una chiave e: «Ti avevo detto di mantenere un profilo basso.»
Il tono della sua voce era carico di disappunto, ma io continuai a guardarlo confusa.
«Chi è Atkinson?»
Lo seguii con lo sguardo mentre con un piede faceva pressione su un preciso asse di legno del parquet, che cigolò sotto il suo passaggio.
«Heath Atkinson.»
Mi rispose alzando la porzione di pavimento instabile, utilizzando la chiave per aprire uno scrigno che si trovava sotto di esso, contenitore dal quale ne estrasse un'altra. Me la lanciò e, con i riflessi da bradipo che mi ritrovavo, la mancai, facendola cadere a terra. Mi chinai per raccoglierla e, quando mi sollevai, mi ritrovai faccia a faccia con Ivor.
«Sei stato tu a raccontargli di me, perciò non farmi la predica.» Mi difesi.
Non aveva alcun diritto di rimproverarmi. Anche se non mi avesse più rivisto per il resto della vita, non avrebbe dovuto farne parola con Heath.
«Perché non è con te?»
«Non lo so, ma non è rilevante. Sono qui per ciò che conta, ossia i miei nuovi documenti.» Tagliai corto, risoluta.
Avevo sprecato fin tempo ad aspettarlo, oppure a parlare di lui, perciò Ivor avrebbe fatto meglio a sbrigarsi: lavorava lì e se al Saturn stava girando una spia, non ci avrebbe impiegato molto a notare la sua assenza. Il ché era un pericolo per entrambi.
«Ieri ho detto che per te avrei fatto un'eccezione, ma purtroppo dovrai fidarti di un altro mio amico, stanotte. Il Saturn è sotto controllo, ma a pochi metri dal retro c'è un salone abbandonato.» Spostò la libreria sul fondo della stanza per liberare la porta che era stata nascosta e: «Quelle che hai in mano sono le chiavi di una macchina, sempre parcheggiata li vicino, dalle a Montgomery Johnson. Se dovesse succedere qualcosa, scappate. Lui sa.» Concluse.
«Come faccio a riconoscerlo?»
Gli ordini che Ivor mi aveva impartito erano chiari, come i motivi che gli avevano impedito di procurarmi personalmente i documenti, però l'idea di dovermi fidare di un altro sconosciuto non mi allettava particolarmente. Avevo già riposto le mie speranze in Heath e avevo commesso un grande errore, considerato che non si fosse presentato quella sera. Non avrei voluto sbagliare ancora con quel Montgomery.
«È qui fuori. Ti sta aspettando. Appena esci dovresti vederlo. Ha tanti tatuaggi ed indossa sempre una bandana blu.» Mi indicò l'uscita, e mi avvicinai ad essa sentendo il cuore martellare nel petto.
«Sei in buone mani, credimi. Non ti lascerei con un incapace.» Aggiunse quando mi vide titubante.
«Va bene, grazie.» Sospirai con un piccolo sorriso, perché era inutile preoccuparsi inutilmente. Conoscevo Ivor, ed era uno dei ragazzi più raccomandabili che avessi incontrato in vita mia, quindi non avrei dovuto dubitare di lui. Insieme a Montgomery aveva pensato a tutto, ed ero piuttosto sicura che non mi avrebbe gettato nella fossa dei leoni, perciò mi armai di coraggio e appoggiai una mano sulla maniglia.
«È stato un piacere rivederti, Ivor.» Lo salutai, spostando lo sguardo oltre le mie spalle, dove stava aspettando che me ne andassi.
«Vorrei dirti la stessa cosa, ma non è stato tanto piacevole essere stato quasi infilzato da te.» Rise.
Un ghigno comparve sul mio volto e «La prossima volta impari a non farmi agguati.» Uscii e il vento colpì il mio viso, facendomi rabbrividire. «Oltretutto, come hai fatto a riconoscermi?» Mi voltai tenendo ferma la porta con il piede.
«Semplice, non ti avevo mai vista da queste parti. Ho fatto uno più uno.» Scrollò le spalle e: «Poi la mia collega mi ha detto che mi stava cercando una ragazza impertinente.»
«Impertinente?» Gli feci eco, incredula che la barman avesse potuto definirmi così. Si era vista lei, che era stata arrogante ed inopportuna?
Dovetti sembrargli veramente buffa, perché Ivor non smise di ridere nemmeno quando lo fulminai con lo sguardo.
«Ci si vede...» Iniziò, ma poi si interruppe non sapendo come continuare, perciò lo aiutai: «Edith.»
«Ci si vede, Edith.» Riformulò.
«In realtà spero di non doverti vedere per almeno un altro anno.» Scherzai e, dopo averlo ringraziato un'ultima volta, chiusi la porta alle mie spalle. Avevo un bel rapporto con Ivor e rivederlo era sempre un piacere, ma avrei preferito sentirlo a distanza. Vederci equivaleva ad essere in pericolo.
Rimasta sola, mi misi sull'attenti: il vicolo era buio, quindi assottigliai gli occhi per cercare di avere una percezione migliore, spostandoli a destra e a sinistra, e alla fine riuscii a scorgere una figura nella penombra sul marciapiede opposto. Anche se incerta, avanzai in direzione del ragazzo che, avvertendo la mia presenza, scattò. Infilò le mani nella tasca dei pantaloni e si avvicinò con passo autoritario fino a quando non fu a pochi metri da me. Arrestò la sua camminata e mi rivolse uno sguardo attento. Adesso c'era un'illuminazione sufficiente per osservarlo meglio: indossava un pantalone in denim, una felpa bianca, un giaccone di jeans nero con applicazioni a forma di rosa lungo le maniche -abbinate alle vans- e, per finire, la famosa bandana blu tra i capelli. Ricambiai il suo sguardo, che aveva un'aria di scetticismo, e lo scrutai a lungo in attesa di una reazione, che però non arrivò.
Sospirai. «Allora, Montgomery. Possiamo andare oppure vuoi continuare con il gioco del silenzio?» Alzai le chiavi della macchina e le sventolai davanti ai suoi occhi.
«In quel caso, credo che tu abbia appena perso.» Concluse afferrando il mazzo che pendeva dalle mie dita.

Succederebbe Tutto - H.S.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora