Haywood. 

Controllai che il nome della via combaciasse con quello suggerito dal navigatore del mio cellulare e, una volta fatto, chiusi l'applicazione e lo rimisi in tasca. Sollevai il mento e fissai lo sguardo sull'insegna che sporgeva sopra la mia testa dall'infrastruttura: RedMoon.

Indietreggiai di qualche passo per metterla meglio a fuoco: ogni lettera, illuminata con il neon rosso, era disposta lungo la linea verticale. Sotto l'ultima consonante, inoltre, era stata inserito il logo del locale che consisteva nella stilizzazione di un calice e di una figura femminile: la donna era seduta dentro il bicchiere, con le gambe penzoloni fuori dal bordo insieme al braccio sinistro. Il destro, invece, era sollevato in aria e la silhouette teneva tra l'indice e il pollice una luna rossa, vicino alle labbra, pronte ad inglobarla.

Scelta interessante, pensai. 

Quindi mi concentrai sulla struttura: incastrato tra due palazzi colorati sorgeva il RedMoon, costruito interamente con mattoni rossi esposti a vista, con apertura ad arco ed infissi in vetro, come la stessa porta d'ingresso. Quest'ultima era poi preceduta da un lungo tappeto color sangue e affiancata da due vasi contenenti piante. 

Se non fosse stato per il navigatore e per l'insegna, avrei creduto di trovarmi davanti ad un albergo piuttosto che ad un night club.

Impressionante. 

Camminai sul finto redcarpet e raggiunsi la porta centrale dove erano fissi gli orari: dal lunedì alla domenica, dalle 11.30 p.m. alle 5:30 a.m.

Il locale era chiuso, considerando che fossero poco più che le sei di sera, ma io mi avvicinai ugualmente al vetro per vedere se ci fosse qualcuno e bussai. Era impossibile che non ci fosse nessuno: se non il capo, almeno le dipendenti dovevano svolgere delle prove in funzione della serata, no? 

Bussai ancora e nessuno mi rispose, perciò passai al piano B. Feci il giro del complesso di edifici e raggiunsi il retro del RedMoon, dove ero sicuro ci fosse un'uscita di emergenza perché, in posti come quello, una porta secondaria c'era sempre. Altrimenti da dove sarebbero entrati in incognito i VIP, i politici, i banchieri e ricchi imprenditori? Nessuno di loro sarebbe entrato dall'ingresso principale: troppo rischioso.

Mossi un passo, ma mi fermai subito quando la suola delle mie scarpe rimase appiccicata al pavimento. Sollevai il piede per vedere cosa fosse e scoprii un preservativo usato. Con la faccia schifata, lo levai sfregando gli anfibi contro il suolo e continuai ad ispezionare l'ambiente circostante: sul lato opposto dal locale erano posizionati tre bidoni della spazzatura e, disseminati intorno ad esso, c'erano pezzi di vetro, unghie finte, fazzoletti, tanga, siringhe e molto altro schifo. 

In quel momento la porta di sicurezza si aprì e uscì dal locale una donna in tuta con due sacchetti della spazzatura. Incurante di essere osservata a debita distanza, li gettò nell'immondizia, imprecò contro i sacchi che non si incastravano e una volta richiuso, si appoggiò sul muretto poco più in là e si infilò le mani nelle tasche. 

«Scusi.» Mi avvicinai alla signora che, ignorandomi, estrasse un pacchetto di sigarette e se ne porto una alla bocca. 

«Scusi.» Insistetti.

«Siamo chiusi, mi dispiace.» Avvicinò l'accendino alla sigaretta ed aspirò un po' di fumo che si liberò dalle sue labbra in un vortice.

«Jude Emerson, detective di Chicago.» Tirai fuori il tesserino coprendo il mio vero nome e le mostrai il distintivo ufficiale.

Lei non poteva sapere della revoca. 

Lo guardò di sfuggita.

«È una dipendente?» 

Succederebbe Tutto - H.S.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora