CAPITOLO TRE.

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3.

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Il giorno dopo mi sveglio a causa delle urla che provengono dal corridoio, sento dei passi e suppongo che stiano andando avanti e indietro. Guardo l'orologio che segna le sette e un quarto del mattino.

Diamine.

Mi metto seduta strofinandomi gli occhi, con ancora un po' di sonno addosso. Tolgo la mascherina dell'ossigeno dal mio volto che uso durante la notte e mi infilo i tubicini nel naso. Le persone fuori non sembrano voler smettere e quindi decido di uscire dalla camera anche se con fatica. Oggi i miei polmoni non collaborano e dato che sono reduce da un lungo sonno sono più stanca del solito.

Apro la porta e ciò che mi si presenta davanti sono un'infermiera che insegue un ragazzo che cerca di sfuggirle. Noto solo dopo la presenza di uno skateboard, sul quale il ragazzo poggia un piede mentre le rotelle dell'oggetto in legno scivolano sul pavimento.

È lo stesso ragazzo di ieri sera, diamine, Diana.

Ho i capelli in disordine e la faccia assonnata ma è troppo tardi ormai perché il ragazzo si ferma proprio davanti a me, riportando con un gesto veloce lo skate fra le mani.

«Ciao.» Mi saluta con un sorriso sulle labbra carnose e rosee. Si infila la mano sinistra libera nei capelli ricci e corti. Io ricambio il saluto imbarazzata.

«Simon Foley.» Lo richiama l'infermiera dalla chioma rossa e riccia avanzando verso di noi.

«Ehm, sì?» Si gira divertito ma poi torna a guardarmi. I suoi occhi smuovono qualcosa dentro di me e mi chiedo: Com'è possibile? Com'è possibile che io mi senta trafiggere da quegl'occhi?

«Sei un disgraz-» L'infermiera si ferma appena mi vede e cambia subito espressione: da arrabbiata passa a felice, mostrando i suoi denti bianchissimi quando sorride. «Oh ciao, cara. Piacere Kirby. L'infermiera che si occupa di questo reparto.» Mi tende la mano e io gliela stringo un po' a disagio.

«Piacere mio, Diana.» Mi limito a dire abbozzando un sorriso.

«Kirby, vai via adesso, dai, lasciami parlare da solo con la nuova arrivata.» La liquida via il ragazzo mentre si appoggia alla parete verso di me, ma a debita distanza. La donna se ne va via sbuffando e borbottando qualcosa in senso di disapprovazione.

«Nuova da queste parti?» Mi chiede mentre mi guarda ancora. Un senso di fastidio cresce in me, odio essere al centro dell'attenzione di qualcuno.

«Ehm sì, tu?» Chiedo cercando di sistemarmi i capelli come meglio posso.

Il ragazzo ride sotto i baffi nel vedermi impacciata. «Tranquilla, sei bellissima anche così.» Arrossisco, sono stupita, oltre a mia madre nessun altro me l'aveva detto. Lo ringrazio, anche se la mia voce esce più come un sussurro.

«Comunque no, sono qui da due anni.» Fa spallucce e si rigira lo skate fra le mani. L'aria si fa un po' malinconica e sento il peso dell'imbarazzo farsi strada tra di noi. Lo avverte anche Simon e ancor prima che io pronunci altre parole, si gira per guardare l'orologio appeso al muro e mi precede: «Oh cazzo... beh, devo andare, ci vediamo dopo all'incontro con i malati, ti divertirai.» Mi dice prima di sorridermi e rimontare sul suo skateboard e dopo quattro porte, entra nella sua camera. Se la mia è la 5B, la sua è la 1B.

Ripenso alle sue parole: In che senso all'incontro con i malati? Dovrò ricordarmelo per chiederlo a qualche medico o infermiera.

Dopo circa un'oretta, arriva la colazione e io finisco finalmente di farmi l'Afflovast.

«Mi scusi, sa dirmi qualcosa riguardo a un incontro che si dovrà tenere oggi?» Chiedo mentre mi sistemo sul lettino cercando di non versare il contenuto del vassoio per terra.

«Ohm...Si riferisce all'incontro delle tre o a quello delle cinque?» Sembra un pochino confusa all'inizio, prima di risponderle ammiro i suoi occhi blu oceano e i capelli neri come il carbone.

«Quello con gli altri malati...Beh, ne ho sentito parlare da un paziente su questo piano...Simon se non sbaglio.» Cerco di non far vedere che ricordo alla perfezione il suo nome. Mi vengono in mente i suoi capelli, le sue dita affusolate e un po' viola, gli occhi verdi, le occhiaie, le labbra carnose e due pozzi sulle guance.

«Oh buon Dio, quel ragazzo non sa tenersi le cose. Si c'è un incontro alle tre con gli adolescenti malati di quest'ospedale, solo per non far sentire soli coloro che hanno questa "sfortuna". Si chiacchiera e si canta alcune volte, o meglio solo quando c'è Jenny, una hippie stramba che viene ogni tanto all'ospedale per sua sorella.» La disinvoltura della ragazza mi stranisce. Sembra così a suo agio a parlare di tutto ciò, ma non posso non biasimarla, lei non deve subire questo dolore che da anni affligge noi malati.

«La ringrazio. Dico prima che esca dalla mia stanza. Prendo le mie pillole mattutine e le metto nello yogurt per poterle ingerire più facilmente. Con una come me che non riesce a sopportare il sapore che rilasciano queste pillole, fa comodo avere qualcosa che ricopre il tutto.

Dopo trenta minuti, il tempo necessario per far sì che le pillole facciano effetto, riprendo a fare colazione mentre guardo con poco interesse una serie tv che stanno trasmettendo in televisione.

«Hei piccola.» La voce di mia madre mi distrae.

Oggi la vedo un po' più riposata rispetto a ieri, avrà dormito bene dalla sua amica Lisa, una donna vedova che le ha offerto di stare a casa sua e dormire nella stanza degli ospiti durante tutta la nostra permanenza qui a Londra. Io l'avrò vista solo un paio di volte nella mia vita e ricordo a malapena il suo viso, a differenza di mia madre che essendo cresciuta qui, è stata da sempre amica sua. Solo con il tempo e con tutti gli imprevisti, si sono allontanate.

«Hei, come stai?» Abbasso il volume della televisione.

«Bene e tu?» Si siede sulla poltrona accanto al mio letto.

«Bene.» Abbozzo un sorriso, anche se si può leggere dai miei occhi che non sto davvero bene.

Il suo volto si acciglia e si allunga per abbracciarmi. Io ricambio l'abbraccio caloroso di mia madre e chiudo gli occhi inspirando l'odore di vaniglia che proviene dai suoi capelli. Mi godo il momento, sperando di aver più giorni per me stessa solo per poter abbracciare mia madre. L'unica donna al mondo che ammiro. L'unica che mi ha fatto capire che bisogna lottare tirando fuori le unghie e graffiando per potermi avvinghiare alla vita.

L'unica che mi dà forza, a me che la forza l'ho perduta già da qualche anno.

L'unica che mi dà forza, a me che la forza l'ho perduta già da qualche anno

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