CAPITOLO DIECI.

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10.

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L'infermiera Heidi mi ha appena bucato l'interno del gomito per potermi mettere la flebo.

«Tra due ore devi prendere l'antibiotico e stasera prenderai il tuo liquido nutritivo attraverso il sondino.» Mi ricorda prima di salutarmi con il suo sorriso e uscire dalla mia stanza.

Sono due giorni che sono chiusa qui dentro senza parlare con qualcuno d'interessante.

Simon non mi vuole neanche vedere.

Mia madre viene ogni tanto a farmi visita, ma mi ha confessato che sta cercando un nuovo lavoro perché sei mesi sono tanti e non può di certo permettersi di starsene a casa dopo che nell'ultimo si è licenziata.

Olivia mi ha detto che sta studiando per un test di biologia e non ha molto tempo per parlare, anche se ho notato molto entusiasmo da parte sua quando l'ho richiamata.

E l'unica persona con cui posso parlare è la dottoressa Heidi.

La stessa che il dottor Jones ha salutato la prima volta quando mi ha mostrato la mia camera.

Tra l'altro da quel che so il famigerato Jeorje Jones non si sta facendo sentire, ma mi hanno avvisata che oggi verrà a farmi visita.

Vorrei così tanto sapere come sta reagendo il mio corpo a questo nuovo farmaco.

Ho passato gli ultimi giorni a ingerire antibiotici, vitamine, liquidi nutritivi, budini alla frutta, pillole, ad ammirare un avanti e indietro di infermiere per controllare che io stia bene, per prendere tutti i miei parametri vitali, per misurarmi la febbre, controllarmi la gola, la saturazione di O2 e il sondino per una possibile infezione e anche per misurarmi la pressione sanguigna o, alcune volte, per tenermi semplicemente compagnia.

Non ho avuto altre visite se non un miliardo di chiamate e messaggi da parte di mia madre.

Alcune volte penso di essere così dannatamente sola.

Guardo il display del mio telefono.

Sono le dieci del mattino di una fredda domenica autunnale.

Come tutte le giornate precedenti. Fredde e uggiose alcune volte.

Il tempo di Londra è così malinconico, ma rispecchia perfettamente il mio umore attuale.

Non che io sia una persona costantemente triste ma sento sempre che mi manca qualcosa.

Tipo la voglia di continuare a combattere.

Tipo la vita.

Non è di certo il massimo essere intrappolata in un castello fatto di vetro, di lettini e di flebo.

Però hai la colazione a letto, hai tante persone pronte a curarti e ti senti per un po' fortunata in una perenne sfortuna.

Sul mio lettino guardo l'esterno attraverso queste finestre così limpide, guardo il cielo, il tetto dell'ospedale, scorgo gli alberi e posso notare un piccolo pezzo di strada.

Non c'è nessuno fuori, almeno che io sappia.

Dalla mia postazione vedo poco e niente se non delle nuvole che minacciano di diventare nere.

Le voci di sottofondo provenienti dalla TV arrivano alle mie orecchie come un suono ovattato, le battute di una squallida telenovela spagnola sono così stupide e già la banalità del susseguirsi di scene assolutamente incoerenti fra di loro mi fa innervosire.

Trasmettono sempre dei lavori spagnoli orribili, che intrattengono solo gli anziani.

Eppure, io in Spagna ci sono stata e ciò che viene mandato in onda non è poi così banale.

Sento bussare alla mia porta.

La mia attenzione viene rivolta verso di essa dopo che qualcuno la apre.

«Toc Toc. Ecco qui il tuo medico!» Si annuncia con fare teatrale. Tanto d'inchino e di risata finale.

«Finalmente. Mi chiedevo se ti fossi preso qualche brutta malattia da potermi lasciare qua da sola senza risposte adatte alle mie domande.»

«Oh, giornata brutta?» Mi guarda la flebo e nota che è finita e quindi estrae l'ago dal mio braccio.

Sposta la poltrona per avvicinarsi a me e si siede.

«Per essere meno drammatica, sì.» Faccio spallucce e guardo i suoi occhi marroni.

Così profondi.

Un pozzo senza fine.

«Suvvia!» Mi rimprovera con il solito sorriso stampato sulle labbra. «Sono qui per dirti che non abbiamo ancora dei risultati certi, sono pochi i giorni per avere un risultato definitivo.»

Io lo so.

Pensa che sia stupida?

Lo so perfettamente.

Sono anni che aspetto dei risultati definitivi.

Anni.

«Mhmh, sì, ne sono consapevole.» Dico semplicemente, tenendomi tutte le emozioni contrastanti per me.

«Bene. Però abbiamo notato un piccolissimo miglioramento. Se non fosse per la gola leggermente irritata. Hai riso un po' troppo, per caso? Così troppo da farti provocare più tosse?» Mi guarda con gli occhi assottigliati.

«Io...Sì, perché? Non posso?» Chiedo confusa.

«Assolutamente no!»

Cosa?

«Devi ridere Diana! Fino a farti scoppiare il cuore.» Mi fa un ampio sorriso. «Aspetta, intento metaforicamente parlando, eh. Solo sta più attenta, perché dopo dovremmo aggiungere anche un altro farmaco per la gola. Al momento ti sarà somministrata una piccola dose per curare l'irritazione.» Mi spiega.

Devo stare anche attenta a ridere?

Perché non lo sapevo?

Forse perché non ho mai riso così tanto in tutta la mia vita.

«Perfetto, abbiamo finito. Volevo solo dirti questo e volevo controllare come stavi. So che affrontare tutto questo è troppo duro per una ragazzina di diciassette anni. Ma non sei sola, sappilo.» Mi dice prima di alzarsi, mettere a posto la poltrona e incamminarsi verso la porta.

«Aspetti, dottore!» Lo chiamo.

«Sì?» Si ferma e gira i tacchi verso di me.

«Grazie.» gli dico semplicemente.

Un ringraziamento che viene dal cuore.

Un ringraziamento che viene dal cuore

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