CAPITOLO SEI.

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6.

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«Semmai volessi un figlio, come lo chiameresti?» Mi chiede Simon mentre affonda i denti nel suo panino, facendo cadere un po' di insalata da esso.

Dopo essere rimasti qualche minuto nel reparto neonati siamo andati a recuperare le mie medicine, che ho preso, e poi ci siamo diretti verso la mensa dell'ospedale.

Io prendo una patatina fritta con le mani ormai unte, e rispondo: «Se è maschio Francisco, se è femmina Aurora o Anne.» Rifletto e sì; probabilmente sarebbero questi i nomi dei miei figli.

«Così pochi? Io chiamerei i maschi Oliver, Jonathan e Johnny e le femmine Anastasia, Lucrezia e Grace.» Dice prima di dare un altro morso al suo panino enorme. Avrà messo una decina di ingredienti all'interno.

«Ma Simon!» Lo riprendo quando noto che il morso che ha fatto è più grande della sua bocca.

Mi accenna un sorriso e pian piano ingerisce il suo cibo.

Scuoto la testa in segno di disapprovazione e continuo a mangiare.

«Non mi devi fare la ramanzina se mangio tanto! Sono due giorni che non riesco a deglutire nulla.» Dice continuando a gustarsi il suo panino.

Io non proferisco parola, so come ci si sente quando il corpo rigetta anche solo l'idea di ingerire qualcosa di commestibile. Il senso di nausea ti pervade e non puoi far altro che attendere che la sensazione passi, in silenzio, senza mangiare.

«Parlami un po' di te.» Mi riaccoglie sul pianeta terra prima di sorseggiare la sua acqua.

«Io ehm... l'ho già detto, ho la fibrosi cistica da quando avevo sei anni e...» Vengo fermata sul posto.

«No, non della tua malattia, sappiamo tutti com'è andata. Parlami di te, della tua famiglia, dei tuoi hobby, delle tue passioni, delle tue abitudini, fittizie, dei tuoi difetti.»

«Fittizie e difetti? Davvero? Perché pensi che io abbia dei difetti?» Chiedo inchiodando i miei occhi nei suoi e incrociando le braccia al petto.

«Tutti li abbiamo. Anche le persone apparentemente perfette li hanno.» Fa spallucce e regge il mio sguardo, socchiudendo gli occhi con fare serio, ma poi mi sorride.

«Beh, vero.» Mi limito a dire, mi rilasso e mangio delle patatine. Sono indecisa su cosa dirgli, se fidarmi e aprirmi del tutto o tenermi delle cose per me. Dopo un paio di minuti di riflessione opto per la seconda opzione.

«Mi piace leggere e scrivere. Li posso considerare dei passatempi, degli hobby o delle passioni, ma non lo faccio a tempo pieno. Non leggo sempre e se scrivo, lo faccio per me stessa.» Abbasso lo sguardo sul tavolo in legno e ora le voci altrui si fanno più chiare alle mie orecchie.

Non siamo soli, ci saranno una decina di persone qui. Sebbene siano distanti dal nostro tavolo, riesco a captare qualche parola.

«A me piace disegnare.» La sua voce mi distrae dall'ascoltare la conversazione di una famiglia intenta a capire la situazione di un uomo ricoverato qui.

- «Forza, Bob, ce la farai.» La voce di quella che sembra la moglie dell'uomo si fa meno nitida e io sono costretta a guardare il ragazzo seduto davanti a me.

«Davvero?» Chiedo come per fargli capire che l'ho ascoltato.

«Sì, all'ingresso hanno appeso un mio disegno. L'ho fatto tre mesi fa. È un disegno di una rosa bianca che perde i petali. Su di essa c'è una farfalla molto piccola. Sotto il disegno c'è scritto..-» Lo fermo.

Il disegno che ho ammirato la prima volta è il suo. Diamine, è il suo.

«La farfalla sono io e la rosa è il mio corpo che viene prosciugato dal tumore.» Ricordo perfettamente la frase, che avevo annotato sulle note del mio telefono, non avendo a disposizione carta e penna. Sono stata così colpita da questa frase che l'ho voluta riscrivere per portarla sempre dietro di me. Nonostante le malattie diverse.

«L'hai visto!» Esulta e si mette a posto i capelli ricci sempre indomabili.

«Sì.» Ridacchio al suo entusiasmo.

È troppo carino.

Dannazione se lo è.

«Andiamo? Si sta facendo tardi.» Dice guardando l'orologio posto sul muro alla sua destra. Io guardo quello che porto al polso e noto che sono le sei.

«Cavolo! È tardi, dovevo vedere mia madre dieci minuti fa, mi starà cercando per tutto l'ospedale.» Mi affretto ad alzarmi e ad afferrare lo zaino e a metterlo sulle spalle.

Simon fa lo stesso sapendo già che ci sarà da correre e che trascinarsi dietro un peso così non ci aiuterà molto.

Prendo il telefono e chiamo mia madre, che dopo il primo squillo mi risponde con aria preoccupata.

«Diana! Diana! Dove stai? Ti senti bene? Ti hanno fatto qualcosa? Che è successo? Dian-» Le sue molteplici domande e il suo tono di voce mi fanno solo roteare gli occhi e venire il mal di testa.

Mamma, non preoccuparti, stavo in mensa con un amico. Chiarisco subito.

È preoccupata e lo capisco. Chi non sarebbe preoccupato di non trovare la figlia dove l'hai lasciata e per di più se è malata?

«Diana, chi è questo tuo amico?» Mi chiede una volta che ha ripreso a respirare.

«È un paziente dell'ospedale, sta nel mio stesso piano, aspetta che torno in camera.» Dopo che ho ricevuto l'Okay da parte sua, chiudo la chiamata continuando a camminare.

«Adesso prendiamo l'ascensore, però.» Mi afferra la mano e ci avviciniamo al primo ascensore che vediamo.

Ho capito che Simon è un ragazzo che ha bisogno di contatto fisico. Molto. E di persone positive nella sua vita. Che ironia della sorte. Ha scelto proprio me, che di positivo ho ben poco ultimamente.

Almeno non è affetto da fibrosi cistica come me.

Altrimenti non avremmo potuto toccarci o respirare la stessa aria.

I malati di FC devono stare a due metri di distanza per prevenire il contagio dei microbi e per non rischiare di ammalarsi ulteriormente.

Dopo qualche minuto, siamo arrivati sul nostro piano e ad attendermi fuori alla porta della mia camera c'è mia madre, con le braccia incrociate e un'espressione arrabbiata stampata sul viso.

Cavolo, sono nei guai.

Siamo arrivati fuori la porta di Simon ed io lo saluto: «Ciao Simon...» Gli dico trattenendo una risata.

«Buona fortuna.» Mi fa l'occhiolino prima di entrare nella sua stanza.

Io mi mordo il labbro e sorrido, rimanendo imbambolata davanti alla porta di legno.

«Diana.» Mi richiama mia madre.

La guardo.

Mi guarda.

Ci guardiamo.

E so già che devo prepararmi per una ramanzina.

E so già che devo prepararmi per una ramanzina

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