CAPITOLO QUATTORDICI.

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14.

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«E siete rimasti a guardarvi? Ma... Non è stato imbarazzante? Io mi sarei imbarazzata, davvero tanto.»

Sono con Anne nella sala dell'ala ovest.

Avevamo un po' di tempo a disposizione e quindi abbiamo deciso di incontrarci qui.

Anche se il mio senso dell'orientamento è stato scarso anche questa volta e non sono riuscita ad arrivare subito. Brutta abitudine tramandata da mia madre. Non memorizzo mai i passi che faccio quando devo ritornare in un posto.

«Beh abbiamo parlato dopo, non è che siamo rimasti tutto il tempo in silenzio, ma siamo stati almeno due minuti così.» Mi devo mordere le labbra per opprimere una risata.

Anne mi guarda sorpresa e scuote la testa, penserà che sono pazza.

«Tu sei pazza!»

Ecco, come non detto.

«Eddai, è stato romantico a parer mio.» Faccio spallucce e mi alzo dalla poltrona gialla per potermi avvicinare al distributore degli snack; il mio stomaco sta brontolando da un po' e sinceramente ho anche un po' di fame. Guardo all'interno di esso e noto delle barrette alla frutta secca che attirano la mia attenzione. Prendo dalla tasca del mio zaino il piccolo porta monete, prendo quelle necessarie e le infilo nel distributore.

«Non l'ho mai visto così, sai? Sembra così preso e tu anche, ma quand'è che vi dichiarate?» Cantilena.

Io sgrano gli occhi e mi giro di scatto, a momenti non sbattevo la testa contro il vetro del distributore.

«Ma a cosa pensi, Anne?» Mi rigiro e premo il numero ventidue.

«Si vede da un miglio lontano che vi piacete.» Confessa attorcigliando le ciocche di capelli fra le dita.

«Seppure fosse non accadrebbe mai... È troppo presto adesso e non sarebbe cauto dichiararsi dopo nemmeno due settimane.» La informo dei miei pensieri.

Prendo la mia barretta alla frutta secca e mi siedo.

«Ti capisco...» Mi dice intenta a guardare il suo telefono.

«Terra chiama Anne.» Scarto la carta del mio snack.

«Oh scusami, ho appena ricevuto un messaggio da Mike e mi ha detto che è all'entrata.»

Io la guardo sorpresa, le mie labbra formano una perfetta O.

«Che aspetti? Vai!» La incito ad alzarsi e ad andare dal suo ragazzo. Lei è indecisa se lasciarmi qui o meno. «Suu, vai. Che io resto qua, lui poi se ne va via e chissà quando lo puoi vedere!» Mi alzo e le tiro il braccio per farla alzare. Lei distoglie lo sguardo dalla mia barretta e mi guarda.

«Grazie, tesoro.» Mi abbraccia e corre via da me per andare dal suo ragazzo.

Io resto qui per un po', gustandomi il mio snack e ripensando al disturbo alimentare di Anne. Bulimia nervosa. Ricoverata qui due mesi fa perché l'hanno trovata priva di sensi sul pavimento di casa sua, dopo aver vomitato anche l'anima. Durante la sua riabilitazione nel Memorial St. Graint Hospital, il nome dell'edificio in cui sono, ha avuto una ricaduta due giorni prima del suo rilascio e l'hanno dovuta trattenere qui per un altro po'.

Ma fortunatamente per lei, tra qualche settimana sarà dimessa. Nel frattempo è in cura da uno psicologo messo a disposizione dall'ospedale e prende ogni giorno le sue medicine sotto supervisione di un infermiere.

Sembra più felice adesso, anche se l'ho notato il suo sguardo quando ha visto la barretta a pochi centimetri dalla sua faccia.

Che stupida che sono stata, non ci ho ragionato molto.

Dopo un paio di minuti seduta su questa poltrona decido di tornarmene in stanza. Rifaccio il percorso all'inverso, percorro infiniti corridoio, salgo una rampa di scale perché l'ascensore era già occupato e quando arrivo al mio piano sono così stanca che a stento riesco a mantenermi in piedi.

Finalmente sono in camera mia e posso buttarmi sul mio letto. Il soffice tessuto mi sfiora la guancia destra e mi accoglie caldamente e metaforicamente fra le sue braccia.

Non mi spoglio nemmeno dei miei abiti per indossarne qualcuno di più comodo, semplicemente mi addormento dopo due secondi.

Al mio risveglio sento la testa scoppiarmi, la gola che mi brucia e gli occhi pieni di lacrime.

Faccio fatica a respirare e a tenere le palpebre alzate.

Non riesco ad alzarmi o a muovermi.

Non riesco a respirare.

Mi fanno male tutte le ossa.

Il panico inizia a farsi spazio nel mio corpo.

Scoppio a piangere sentendo la fine della mia vita.

Sfilo il telefono dalla tasca dei jeans e tra un tentativo e un altro nel tenere gli occhi aperti clicco sul numero di Simon.

Alzo il volume al massimo premendo il tasto al lato del telefono.

«Pronto?»

Voglio parlare, ma non ci riesco.

Sento i miei polmoni collassare ogni volta che tento di respirare.

«Diana?» Dalla voce noto che si allarma.

Per favore, Simon, vieni a salvarmi.

Per favore.

E come per magia sento delle urla provenire dal corridoio, risuona un allarme che invade le mie orecchie e la porta si spalanca, rivelando un Simon preoccupato, ma sempre bello.

Non riesco a respirare.

Non so se sopravviverò.

Ma se ce la farò, lo dovrò ringraziare.

Ma se ce la farò, lo dovrò ringraziare

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