26. Per tornare a respirare

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Sarah si mosse sulla pietra scheggiata sotto di sé. Un dolore sordo al fondoschiena la fece destare dal suo stato di immobilità.

Se si fosse rifiutata di mangiare sarebbe morta, ne era consapevole. Stava perdendo le forze, e la cosa la terrorizzava, eppure non riusciva a trovare una ragione per non abbandonarsi all'oblio. Quella sera era quasi riuscita ad addormentarsi, con l'immagine di Jon che periva sotto il colpo di suo zio, con gli occhi di lui che perdevano rapidamente il lume che li aveva animati da quando lo conosceva. Aveva stretto forte gli occhi sperando che in quel modo quella scena svanisse dalla sua mente, ma tutto era stato vano. Jon era ancora lì davanti a lei, che le spirava tra le braccia mentre tentava di dirle qualcosa. Il suo rimpianto più grande era non aver compreso appieno le sue ultime parole. Sarah desiderò gridare fino a squarciarsi la gola.

Rannicchiata nell'angolo del sotterraneo, pensò che in fondo, se non aveva potuto salvarlo, non meritava di essere salvata.

Ma poi... Con lentezza quasi estenuante, come in un'eco remota, giunse una voce che le fece riaprire gli occhi.

Non ti ho insegnato ad arrenderti.

Non poteva trattarsi di lui. Era... era la voce di suo padre. Suo padre era lì? Non poteva essere davvero accanto a lei, era morto tanto tempo prima. Ma sembrava talmente vicino, seppur così lontano, che le sembrò le stesse parlando a un metro di distanza.

Sarah si inginocchiò spostando il peso in avanti come per afferrare quelle parole. —Padre?

Fu un sussurro che si perse nel vuoto del sotterraneo facendola rabbrividire.

Ciononostante continuò a chiamarlo. —Siete davvero voi? Padre?

Seguì un istante di silenzio prima che la voce tornasse a invadere la sua memoria. —Sei forte, Sarah. Sei la mia bambina.

Lei percepì il peso delle lacrime mentre le labbra cominciavano a tremare. —Devi uscire di qui, subito.

—Padre...

Quella parola si perse in un singhiozzo che Sarah tentò in tutti i modi di trattenere, ma il ricordo di suo padre, la sua voce che sembrava avvolgerla con calore come aveva sempre avuto il dono di fare e il fatto che si sentisse tanto stremata ed esausta glielo impedirono.

Lui non c'era più ma in qualche modo là sotto, nascosta dal mondo intero e sola, lei riusciva a sentirne la presenza. E decise che suo padre aveva ragione. Che doveva andarsene da quel posto, ovunque si trovasse, e riprendere in mano le redini della situazione. Anche se Jon se n'era andato, se glielo avevano ammazzato sotto agli occhi, anche se quella sofferenza che percepiva permeava qualunque cosa e il suo intero essere e Sarah non aveva idea di dove andare, non importava. Doveva andare via. Prima che suo zio tornasse. Non sapeva dove si trovasse, né se il poco ossigeno che aleggiava là dentro fosse sufficiente a farla restare in vita il tempo necessario a fuggire, ma doveva fare un tentativo.

Ricacciando indietro i singhiozzi lasciò andare la voce di suo padre e si sollevò in piedi aggrappandosi alla parete di pietra e trattenne un gemito. La sua pelle sembrava essersi fatta di carta vetrata.

Le labbra secche, il cuore in tumulto, la ragazza si osservò intorno per cercare uno spiraglio di luce, qualunque cosa che le permettesse di trovare una via di fuga.
Niente.

Nell'oscurità intravedeva la grata di ferro che bloccava l'entrata. Non c'era nulla che potesse aiutarla a forzare la serratura. Intorno a lei sembrava esserci il deserto. Sotto i suoi piedi, la superficie della pietra sibilava contro le suole delle scarpe. Sarah rimase immobile, il respiro affannoso, a cercare un modo dentro la sua testa ma quella stessa testa vorticava in un turbine di confusione che sembrava non avere fine, le gambe parevano sul punto di cedere da un momento all'altro.

Peccato di mezzanotte Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora