36. Fuga

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Le lacrime di Freya le stavano facendo perdere il controllo. Tra tutti, lei era l'unica che stesse piangendo; gli altri apparivano semplicemente sconvolti, le facce incupite, ma sembravano accettare quello che era appena accaduto come se fosse la cosa più naturale del mondo.

Non c'era modo di tornare indietro. Se avesse potuto, probabilmente avrebbe agito diversamente; mai, nemmeno nei suoi desideri più profondi, avrebbe pensato di poter uccidere qualcuno.

Ma c'era un lato di ognuno che si piega alla negazione di ciò che finge di essere per tutta la vita, di questo Sarah era certa, o almeno con questo tentava di giustificare quello che aveva fatto. Era stata buona, dalla parte della giustizia per tutta la vita, poi un meccanismo di difesa era improvvisamente scattato dentro di lei. Si era sentita profanata, quella era la verità, macchiata irreparabilmente e alla fine il rammarico perché inevitabilmente aveva pensato che se avesse mai provato l'amore quella persona l'avrebbe trovata non più pura aveva innescato la miccia.

Così, aiutata dal suo solo corpo, si era difesa nel modo peggiore che esistesse. E adesso tutto ciò che avrebbe potuto fare era andarsene.

Si pentiva solo di non poter dire addio nel modo più appropriato. A Jon, prevalentemente. Che Dio l'aiutasse, l'immagine di quell'uomo l'aveva accompagnata da quando le fiamme avevano preso vita fino a quando non era uscita di corsa per non morire soffocata dal fumo.

La vergogna, che ormai sovrastava il suo senso di appagamento, aveva scatenato un dolore fisico di cui non riusciva a individuare l'origine. Sapeva che faceva male, nient'altro.

Avrebbe chiesto perdono al cielo se fosse stata certa che qualcuno di misericordioso avesse potuto espiare i suoi peccati. Ma ormai non credeva più in niente.

—Freya, ti supplico, basta— implorò prendendosi la testa tra le mani. Doveva reagire ancora. Doveva salvarsi ed esisteva un unico modo.

Qualcuno avrebbe potuto definirla una codarda, ma a lei poco importava.

Doveva andarsene, scomparire, nel posto remoto a cui ormai sentiva di appartenere. Perché Londra, Ashton House, non le appartenevano più come lei, di riflesso, non gli apparteneva.

Intorno a loro, la gente aveva cominciato ad urlare. Vedevano le fiamme avviluppare la facciata esterna, la finestra appartenente alla stanza di Robert, lingue di fuoco che presto si sarebbero spostate anche verso il resto della casa, ma nessuno muoveva un dito per smorzarle. Sembravano bambocci ammaliati da quei giochi di luce, ma la cosa peggiore era che Sarah se ne stava immobile con le braccia cadenti lungo i fianchi nonostante sapesse che le rimaneva poco tempo. Si fidava della sua servitù, ma non di tutti loro; avevano capito cos'aveva fatto, e quasi certamente qualcuno non era d'accordo con quel gesto avventato e infernale.

Qualcuno l'avrebbe certamente tradita. Anche se probabilmente lo meritava, non avrebbe sopportato di finire in galera ed essere giustiziata.

—Che cosa farete?— domandò flebilmente Lewis alle sue spalle. Sarah sollevò la testa, molto lentamente. —Dirigetevi verso Charters House— gli rispose. —Lord Charters saprà come aiutarvi. Non sarò più io la vostra padrona.

Freya emise un suono strozzato, gli altri si limitarono a tacere.

—In nome di Dio! Non avrete per caso intenzione di...

—Non ho intenzione di togliermi la vita, Freya— la interruppe lei girandosi mentre coglieva le occhiate dei vicini farsi sempre più pressanti. —Ma devo andare via da qui. Lo capisci, vero? Vedi come mi guardano?

Gli occhi della donna, già colmi di pianto, si incupirono ma le bastarono pochi istanti per capire che Sarah aveva ragione. Le prese le mani e le strinse tra le proprie con fare materno. —Non meritavate quello che vi è capitato, miss Ashton. E per quello che vale, sappiate che io sarò sempre fiera di voi, anche se dovessi andare contro Dio in persona.

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