Capitolo 22-Leo

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La mia parte preferita di tutto il casino che seguí l'urlo dei Party Pony furono le esplosioni.

Zete e Calaide, la star del pop anni Ottanta e il bue da hockey, non se la cavavano un granché bene contro il fuoco.

Duh.

Quasi non c'era bisogno che tenessi monitorati gli altri due aerei: li avevo entrambi impostati nel pilota automatico, e mi sarei volentieri fermato ad ammirare quei due gioiellini mentre inseguivano i ghiaccioli alati, se non avessi avuto alle calcagna una psicopatica urlante con manie di grandezza.

-TI UCCIDERÒ, LEO VALDEZ! - strillò Chione per la settecentesima volta.

-SEI BELLISSIMA, DOLCEZZA, MA SEI UN PO' NOIOSA! - replicai.

Mi esibii in una virata con avvitamento che avrebbe fatto invidia al Barone Rosso in persona e ripresi a sparare contro di lei proiettili in bronzo celeste, che la presero in contropiede.

-AH! - uno dei proiettili le sfiorò il braccio, un altro il viso.
L'icore, il sangue degli dèi, prese a sgorgare dalle ferite, oro liquido che scivolava su candida porcellana.

Potei avvertire i meravigliosi, freddi occhi della dea trafiggermi con odio persino a decine di metri di distanza.

-QUESTA ME LA PAGHI!

-AGGIUNGILA PURE AL CONTO, TESORO, MA TI AVVERTO CHE NON HO UN CENTESIMO, DRACMA O GALEONE CHE SIA!

Metri e metri sotto di noi, la battaglia infuriava. I Party Pony stavano prendendo il sopravvento, per fortuna, difendendo i ragazzi e facendo a gara tra le proprie fazioni a chi spaccava più nasi con le frecce-guantoni e a chi riusciva per primo a rendere la Umbridge color della melma.
Quelli della Virginia se la cavano mica male, e anche quelli del Sud Carolina non scherzavano. I Texani avevano i guantoni migliori, ma a mio parere a dominare la scena erano quelli dalla Florida: altro che fucili a vernice, quelli si erano portati mitragliatrici e persino un bazooka.
Tutti loro, però, dovevano essersi sparati qualcosa come venticinque casse di birra alle erbe, perché diamine se si stavano scatenando. Era come se avessero iniettato loro caffè e Red Bull nelle vene ed ora potessero vedere il suono.

Ma sto divagando.

Pesanti nuvole cariche di neve avevano oscurato il cielo immergendomi in un mare di grigio, tanto da farmi credere che Zeus in persona fosse venuto a dare un'occhiata.
Un aiutino no, eh, nonno?, pensai mentre cavalcavo quelle correnti gelate.
Il vento prese a soffiare sempre più forte, sferzandomi il viso e minacciando di spaccarmi le labbra.
Chicchi di grandine grossi come palle da tennis iniziarono a bersagliare l'aereo, senza però scalfirlo.
Ovviamente, avevo pensato a tutto: grandine, ghiaccio, neve, vento, persino un po' ai fulmini.

Come se non ci fosse già abbastanza ghiaccio, però, altre presenze fredde e ostili minacciarono di congelare i circuiti del Coach Hedge, come avevo battezzato mio aereo in onore del nostro satiro pazzoide preferito (gli altri due li avevo chiamati Festus Junior e Baby Argo).
Ero piuttosto sicuro che quella brutta sensazione di gelo non fosse data da Chione. Era più pesante, più... oppressiva. Toglieva il respiro e allo stesso tempo ogni speranza, era una presenza soffocante che voleva trascinati sul fondo del baratro.
Stringeva il petto come una tenaglia, forgiata con la paura.
Arrenditi, sussurrava. Arrenditi.

-Vediamo di liberarci della principessina.

Cercai sul cruscotto il pulsante adatto tra tutti quelli che avevo installato. Altri proiettili? Nah, troppa poca visuale. Bombe? Non abbastanza sicure. Autodistruzione? Ehm... meglio di no.

-Andiamo, andiamo... Oh, santo mio padre!

Planai a sinistra, mentre i dardi di ghiaccio si infrangevano sulla fiancata del Coach, frantumandosi in centinaia di inutili pezzi. Abbassai la testa per evitare che una dozzina di loro mi trafiggessero da parte a parte.

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