"Che è la vita? Una frenesia. Che è la vita? Un'illusione, un'ombra, una finzione. E ilpiù grande dei beni è poca cosa, perché tutta la vita è sogno, e i sogni sono sogni [...]Che confuso labirinto è questo, di cui il pensiero non può rintracciare il filo?"- Calderon de la Barca
Accadde a tarda notte.
Me ne stavo assopito in poltrona, con un tomo sulle ginocchia, chiuso nel tepore dello studio, a godermi la prima di un temporale estivo.
Per settimane e settimane non avevo trovato riposo dagli studi in cui mi ero lasciato annegare: giorno e notte avevo cercato nutrimento per i miei tarli tra pagine tantriche, ricordi sepolti, rivelazioni oniriche indotte dagli acidi; avevo impiegato ogni energia nel tentativo di sbrogliare le matasse dell'ossessione che mi dominava, intero: ecco che il mio corpo si era infine concesso una parentesi di respiro. Mentre riposavo, una fitta coltre di nebbia aveva invaso la stanza e veniva ora mescolandosi al profumo intenso del tè in infusione. Il rullio costante della pioggia sui vetri ed il cocktail degli odori racchiudevano la stanza in un alone pacioso.
Poi, l'eco di uno sparo lacerare il silenzio.
Mi riscossi, gli occhi sbarrati, coperto di sudore, e subito immagini confuse affollarono la mia mente, incubi che ricacciai indietro, inorridito. Avevo sognato? Deliravo? O ricordavo fatti?
Avrei dovuto dare ascolto al medico e farla finita col bere, una volta per tutte. Feci un rapido calcolo del denaro speso in whisky nelle ultime settimane: non avevo il becco di un quattrino e sperperavo ogni cosa nel vizio. "Finirai sul lastrico". Lei, lei soltanto... fosse maledetta.
Mentre mi arrovellavo ozioso, in una oziosa ricerca di soluzioni, lo sguardo mi cadde su un oggetto metallico che se ne stava abbandonato sul tavolino, addossato a una pila di libri. Era il vecchio revolver di mio padre. Non ricordavo di averlo lasciato qui nello studio; non ricordavo affatto, anzi, di averlo tenuto in mano, ormai da anni. Papà aveva insistito a che prendessi qualche lezione di tiro, prima di morire, perché, diceva, "non debba trovarti mai a sbagliare la mira, al momento propizio". A dire il vero, dopo tutto il tempo trascorso, non ero neppure sicuro di saper impugnare l'arma a dovere.
Perlustrai lo studio in cerca di un segno, sconcertato, fino a che non sorpresi nuovamente il profilo grigio dell'arma. Questa volta l'intrusa si specchiava, si scomponeva e si moltiplicava sulla superficie di quello specchio che lei stessa mi aveva regalato, e che adesso marciva, crepato, nell'angolo opposto della stanza.
Fissai l'arma con una curiosità ostinata per qualche istante ancora, la studiai a fondo in ogni componente, quasi interrogandola sulle ragioni della sua ricomparsa. Poi, d'un tratto, la questione perse ai miei occhi d'ogni interesse, e tornai a quello che era il mio pensiero dominante.
Mi alzai, mi versai una tazza di tè, e presi a misurare il pavimento ad ampi passi.
"Cosa ci ha uccisi?" mi chiedevo, stringendo con forza la tazza tra le mani. Ada...
Ada se n'era andata via dopo avermi scaricato addosso le sue ragioni come una pistolettata, ed io sapevo fin dall'inizio che non avrei saputo fermarla. Non ne avrei avuto il cuore. Come darle torto, d'altronde? I miei vizi l'avevano distrutta. L'avevo trascinata in questi luoghi selvatici senza che potesse dare un bacio d'addio ai suoi affetti, lasciata all'oscuro del progetto che nella mia mente agile andava delineandosi, per lunghe notti aveva sospirato a letto, sdraiata su un fianco e con gli occhi rivolti alla finestra, a chiedersi cosa veramente volessi, cosa mi aspettassi di cavare dagli esperimenti inconsueti che conducevo nel chiuso dello studio, e in che modo il mio amore per lei potesse rientrare nel disegno. La sentivo spesso rigirarsi tra le lenzuola, inquieta, e non le avevo mai rivolto una parola di conforto.
Languì in queste condizioni per mesi.
Poi, iniziai a coinvolgerla nelle mie follie.
All'iniziò si trattò di qualche compito semplice, discreto e non eccessivamente gravoso per il suo equilibrio psichico. Mi aiutava nel trasporto dei materiali, preparava lo studio, riordinava i ferri del mestiere. Soprattutto, avendo constatato la mia scarsa disponibilità a fornire informazioni che eccedessero le direttive tecniche utili al lavoro, si guardava bene dal fare domande. Col passare dei mesi mi sentii abbastanza sicuro e stanco da sfruttare anche le sue conoscenze in campo anatomico e chimico, e mi preparai a rivelarle la natura profonda della mia ricerca. Non potrei mai dimenticare i suoi occhi al momento della confessione. Sbarrati sull'abisso, la brillantezza del colore offuscata da un velo di lacrime.
Da quel giorno, Ada si fece sempre più pallida, smagrita, irritabile, decisa a custodire nel silenzio il terrore che avevo abilmente risvegliato in lei, terrore che confermava l'eccezionalità (fosse anche disumana) dei miei scopi. A discapito di tutto il dolore tollerato in segreto e di tutte le mistificazioni, non si sottrasse alle mansioni che le avevo affidato e continuò per un lungo periodo a rincorrere la mia fantasia.
Poi, il colpo.
Finalmente, una mattina d'autunno, Ada si decise a lasciarmi, rinfacciandomi con foga i miei errori: avevo perso la ragione, mi ero seppellito sempre più a fondo giù negli inganni dello specchio. "Tu non mi hai mai amata. Hai sempre amato soltanto te stesso e le tue manie". La lasciai sfogare e le versai del brandy. Ma non ne volle sapere, aveva lasciato la stanza prima ancora che potessi proferire parola. In un primo impeto di stizza, mi dissi che era una puttana e nient'altro, era scappata certo col primo tombeur che le promettesse milioni e grattacieli e mi aveva abbandonato a me stesso senza pensarci due volte, al chiuso di quelle mura ostili, nel pieno della lotta contro la mia coscienza. Ma non avrei giocato al suo gioco, no. Per nessuna ragione avrei ceduto. Potevo fare a meno del suo supporto. Compiacendomi della solitudine rinnovata, rinchiusi la sua immagine negli archivi della memoria scomoda e mi reimmersi negli studi.
Ora, due anni e mezzo dopo, tra lo scroscio della pioggia e gli echi dal parquet calpestato, avevo riconosciuto la verità: avevo ancora bisogno di lei. Dovevo rintracciarla e convincerla che il suo contributo mi era essenziale, che se avesse accettato di prestarsi anche solo per un'ultima volta avrei completato la muta, e molte vite sarebbero state risollevate. Spesso mi aveva preso in giro per il carattere desueto delle mie speculazioni, per i nomi che davo alle cose, insomma per quello che chiamava uno spiritualismo da negro. Mi aveva chiamato pazzo. Ma io sapevo che alcune regioni del Vero non possono indagarsi nella quotidianità, non trovano lettere negli alfabeti che abbiamo accettato come testimoni del sapere, non rispondono ai richiami che i sensi lanciano loro. Sapevo che alcuni universi hanno un loro proprio linguaggio che dev'essere scoperto. Così, mi proponevo di insegnarle, quando l'avessi ritrovata, il codice del nuovo mondo.
Mi diedi immediatamente ai preparativi per il viaggio. Sapevo per certo che Ada era tornata al Sud: lì aveva un amico, un alleato, un uomo che, sebbene l'avessi conosciuto poco, confidavo l'avrebbe tenuta al caldo a dovere, il tempo sufficiente a un mio futuro ritorno. Tuttavia ero all'oscuro del paese la cittadina la via l'appartamento la camera il letto in cui la mia lei dormiva ora esausta e ignara di tutto. E non ero neppure certo che l'altro avrebbe ceduto la preda senza prima averla difesa con unghie e denti. Dacché non avevo punti di riferimento, mi risolsi a spezzare finalmente la catena del dubbio e a muovermi quanto prima. Riempii un borsone con due cambi d'abito, qualche provvista e delle sigarette, poi diedi il via alla discesa.
La mattina della partenza si preparava di nuovo un temporale. Sollevai lo sguardo al terso cielo autunnale e sorrisi, amaro. Il giorno che l'avevo conosciuta pioveva. Lei era balenata in seno al bivio, composta di luce.
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ADA- Bozze di un Anonimo
General Fiction"Che è la vita? Una frenesia. Che è la vita? Un'illusione, un'ombra, una finzione. E il più grande dei beni è poca cosa, perché tutta la vita è sogno, e i sogni sono sogni [...]Che confuso labirinto è questo, di cui il pensiero non può rintracciare...