//Lucy Pevensie//

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Era una ragazzina di circa sette anni, con i capelli castano ramato tagliati corti ornati da un fiocco verde. Era rannicchiata ai piedi di un grande albero e piangeva senza freno, il volto nascosto fra le ginocchia e le spalle esili scosse da tremiti. La sola vista mi provocò un improvviso moto di compassione. Mi sedetti accanto a lei, cercando di farla ritornare in sé.

«Coraggio, piccola» tentai di consolarla. «Cosa ti è successo? Perché sei qui da sola?»

La bambina levò su di me i suoi grandi occhi azzurri. Aveva una faccetta buffa e grassottella, con quel piccolo nasino all'insù ricoperto di efelidi sulla pelle bianco latte. Così conciata, mi ricordava tantissimo una ranocchia.

«Ecco,» le dissi, porgendole un fazzoletto «questo ti farà sentire meglio.»

Non l'avessi mai fatto! Non so perché, ma quel gesto le provocò immediatamente una nuova ondata di pianto, quasi le avesse ricordato il motivo per cui era così triste.

«Su, su, non piangere!» tentai disperatamente di consolarla. «Sicura che non posso fare nulla per aiutarti?»

«Io non sono una bugiarda!» singhiozzò la bambina, appoggiando la testolina sulla mia spalla. «Perché mentire così? Ma tanto è inutile, loro non mi crederanno mai.»

«Loro chi?»

«I miei fratelli. Non credono al fatto che io sia stata a Narnia. Pensano che sia stato solo un sogno o che sia diventata matta.»

«Narni?» domandai io, pensando subito al piccolo paesino in Umbria dove ero stata con la mia famiglia tanti anni prima per una vacanza.

«No, no, Narnia» mi corresse la bambina. «Il mondo nell'armadio guardaroba.»

La fissai allibita. Sì, era matta, completamente fuori di testa. «Nell'armadio?» domandai.

La piccola mi lanciò un'occhiataccia. «D'accordo che può sembrare una cosa assurda,» mi disse serissima «ma le cose stanno così. Semplicemente, io e i miei fratelli stavamo giocando a nascondino e io mi sono rifugiata in un armadio. Solo che a un certo punto... l'armadio non c'era più, ma al suo posto era comparsa una foresta tutta ricoperta di neve. Ed è lì che ho incontrato il signor Tumnus, che mi ha spiegato che quella terra si chiama Narnia e che ora è sotto la maledizione della Strega Bianca, che ha mandato un lungo inverno in cui non c'è mai il Natale... Poi sono dovuta ritornare qui e i miei fratelli non mi hanno creduta. Anch'io a un certo punto mi ero convinta di aver avuto un'allucinazione, ma poi, la notte seguente, mi sono ritrovata di nuovo lì. E non ero sola: anche mio fratello Edmund è venuto con me. Ero così felice, speravo che lui mi avrebbe aiutata a provare che dicevo il vero, ma, quando è arrivato il momento di dirlo a Peter e Susan, lui ha fatto finta che non fosse accaduto nulla e mi ha trattata come una stupida!» i suoi occhi si riempirono di nuove lacrime. «Non sono una bugiarda! Esiste davvero, lo giuro!»

Io non sapevo cosa dire. Quello era di gran lunga il racconto più assurdo che avessi mai udito in vita mia. Come crederle? Solo che non volevo ferirla ulteriormente. Che fare dunque?

«Non so che dirti, tesoro» le dissi dandole un buffetto sulla spalla. «Ma sono sicura che in qualche modo troveremo una soluzione.»

Fu allora che mi resi conto che la bambina, nonostante facesse un freddo polare, aveva indosso solamente un leggerissimo vestitino di cotone a pallini neri, che le lasciava scoperte le braccia e gran parte delle gambe.

«Ma sei matta?» esclamai, togliendomi il cappotto e gettandoglielo sulle spalle. «Così ti ammalerai!»

La piccola mi fissò con l'aria di chi si stava chiedendo se per caso avessi qualche rotella fuori posto. «Perché mi butti questo giaccone così pesante sulle spalle, con tutto il caldo che fa?» chiese in tono sospettoso.

«Caldo? Ma se in questo momento ci saranno al massimo cinque gradi!»

«Me è estate!»

Sgranai gli occhi per la sorpresa. «È il 19 dicembre!» esclamai.

La bambina mi fissò, scuotendo il capo. «Sicura di stare bene?» chiese in tono innocente.

«Io...». Non sapevo cosa rispondere. La guardai con ancora più attenzione e fu allora che mi resi conto che c'era qualcosa di completamente fuori posto in quella ragazzina, come se non avesse mai dovuto trovarsi lì. Era come se fosse stata una creatura completamente dislocata nello spazio e nel tempo. Ma che cosa stava succedendo?

«Chi sei tu?» balbettai.

«Lucy Pevensie, tanto piacere» si presentò lei, tendendomi la manina grassoccia con disinvoltura.

«Io... mi chiamo Penelope Mantis. Ma tutti mi chiamano Penny» risposi io, stringendogliela. «Ma... che ci fai qui? Scusa, ma non capisco. E i tuoi genitori?» Non riuscivo a trovare il filo logico di tutta quella storia.

«Io vivevo a Londra fino a poco tempo, fa, prima della guerra» rispose Lucy.

«Guerra?»

«Siamo dovuti fuggire in una casa di campagna perché era diventato troppo pericoloso per noi restare in città. E il mio papà è partito per la guerra» continuò lei.

«Ma di quale guerra parli?» domandai io, spaesata.

«Ma della guerra che c'è ora, no?» rispose Lucy. «Quella contro i Tedeschi.»

«I Tedeschi? Ma da quando?»

«L'anno scorso, il 1939.»

Mi sentii sprofondare. Cosa? Mi guardai nervosamente attorno. Fui presa dal panico. In quel momento, non ero più a Roma! Ero sempre seduta ai piedi di un grande albero, solo che questo sorgeva ai margini di un grande prato che abbracciava una bella casa di campagna, nel quale tre ragazzi erano tutti presi a giocare. Quello che sembrava il più grande, un giovanotto biondo dal sorriso simpatico, si voltò verso di noi.

«Vieni, Lu!» esclamò agitando il braccio.

Lucy scosse il capo e appoggiò il mento alle ginocchia, fissando il vuoto davanti a sé, isolandosi in un mondo tutto suo. In un attimo, tutto scomparve e mi ritrovai di nuovo ai piedi del grande albero sotto il quale avevo creduto di vedere la bambina. Avevo i brividi e le gambe mi tremavano in maniera incontrollata. Non riuscivo a credere di aver vissuto veramente quella esperienza, ritrovandomi a parlare con una persona nata molto tempo prima di me e che forse era già morta da un pezzo. Quel pensiero mi fece venire le vertigini. Possibile che fossi del tutto impazzita?

Feci per andarmene, quando notai qualcosa che faceva capolino fra gli incolti ciuffi d'erba. Mi chinai e lo raccolsi. Era un libro, un grande volume nero con una bella testa di leone che occupava quasi tutta la copertina. Lessi il titolo e sussultai per la sorpresa: C.S. Lewis, "Le Cronache di Narnia".


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