12. THANKSGIVING

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«Rosie muoviti o perderemo il treno!» urlò Jason notevolmente più avanti rispetto a me.
«Hai le gambe più lunghe! E lo zaino più leggero!» urlai a mia volta con il fiatone.
Erano le sette in punto del mattino e ci stavamo precipitando verso la stazione della metropolitana di Manhattan, destinazione Filadelfia.
Pochi giorni prima ricevetti una chiamata da parte di mia sorella dove invitava me e Jason –sotto obbligo- a passare il giorno del ringraziamento insieme ai nostri zii, come ogni anno; quella fu la prima volta dove risposi di sì in quasi quattro anni e non sapevo come sentirmi al riguardo. Da una parte ero contentissima di rivedere Charlotte perché nonostante parlassimo per telefono di tanto in tanto, mi sembrava di non vederla da secoli; dall'altra ero parecchio agitata al pensiero di dover stare insieme ai miei zii, non avevo mai avuto un buon rapporto con loro: quando a 16 anni scoprii che sarebbero diventati i miei tutori legali non la presi bene, feci passare loro due anni di inferno, finché a 18 anni e un giorno non me ne andai di casa.
Persa nei miei pensieri, andai a sbattere contro Jason, accorgendomi successivamente che eravamo arrivati alla stazione.
«Per un pelo. Sei emozionata?» chiese dopo aver controllato il tabellone con gli orari di arrivo delle metro.
«Abbastanza. Un po' nervosa a dire il vero, vorrei scusarmi con tutti.» dissi accendendomi una sigaretta sotto una sua occhiataccia.
«Sai come sono Serena e Dean, mi raccomando Ros.» mi guardò apprensivo. In realtà non erano affatto delle cattive persone, anzi, con Charlotte avevano fatto un ottimo lavoro, aveva una media perfetta, il fidanzato perfetto e un futuro perfetto davanti a sé. Era diventata tutto quello che speravano diventassi io alla sua età, 16 anni; al contrario, le uniche cose che ebbero da me furono hangover, espulsioni, uso di droghe e sedute dallo psicologo. Ma ormai era il passato, ero cambiata, ero cresciuta ed ero guarita.
Arrivò finalmente il nostro mezzo ed io e Jason lottammo per accaparrare due posti liberi, consapevoli di non poter affrontare due ore di metro in piedi. Fortunatamente il tempo passò molto velocemente, Jason dormì mentre io passai gran parte del viaggio tra le note del mio cellulare, presa a scrivere e cancellare un ipotetico discorso. Ma cosa potevo dire dopo tre anni di silenzio?
Quando arrivammo a destinazione il mio discorso non aveva né un inizio né una fine, e quasi non ascoltai il mio cervello quando mi disse di tornare a casa a gambe levate.
Il viaggio in taxi fu spaventosamente silenzioso ed io ringraziai mentalmente Jason, anche se sapevo che stava morendo dalla voglia di dire qualcosa e fare qualche battuta. L'auto ci lasciò davanti una villetta molto curata e abbastanza grande, sicuramente dieci volte meglio del mio appartamento.
«E' questa?» chiese Jason ispezionando l'esterno.
«E io come faccio a saperlo?» risposi avvicinandomi alla cassetta postale per leggere il cognome.
«Smith, ci siamo.» sospirai «E' la nostra ultima occasione per scappare.» ironizzai, nascondendo una punta di serietà.
Il mio amico mi ignorò e si precipitò verso la porta di ingresso, per poi suonare il campanello. Una figura alta e snella aprì la porta, facendo ondeggiare i capelli castani: Charlotte.
Mi avvicinai cautamente, raggiungendo Jason all'ingresso.
«Ciao Jason , ciao ... Rosie.» sorrise correndo ad abbracciarmi. Per un secondo mi sembrava fosse tornato tutto normale, non sentivo più nemmeno un briciolo di paura.
«Stai alla grande.» dissi guardandola da capo a piedi e ricevendo anche l'approvazione da parte del mio amico.
«Anche tu, ti trovo davvero bene. Oh, Jason, tu non sei cambiato per niente.» rise «Forza, venite, gli zii stanno morendo dalla voglia di vedervi.» aggiunse facendoci entrare.
L'interno della casa era curato come l'esterno, sulle pareti c'erano diverse fotografie di Charlotte da bambina, di loro insieme, alcune anche mie ed infine una del matrimonio dei miei genitori. Senza accorgermene mi ritrovai in sala, dove ad aspettarmi c'erano due semi sconosciuti sul divano.
Fissai Serena per un paio di secondi, fino a quando non notai delle lacrime scenderle sulle guance, per poi alzarsi ed abbracciarmi fino a quasi stritolarmi. Dean si aggiunse qualche istante dopo.
Le mie paure erano ufficialmente svanite, non avevo più motivo di preoccuparmi, mi volevano ancora bene.
Ci sedemmo tutti intorno al tavolo della cucina e iniziammo finalmente a parlare, mentre mia zia serviva del the caldo, e mi resi conto che non sapevano davvero nulla della mia vita.
«Raccontaci un po' di te, non ci vediamo da una anni!» esclamò Serena dopo aver riempito il tavolo di biscotti.
«Oh, ehm ... Sono al primo anno di psicologia, studentessa di mattina e cameriera di sera.» cercai di ironizzare.
«Ma è meraviglioso! Ti stai trovando bene?» aggiunse mio zio, notevolmente sorpreso.
«Sì, mi piacciono molto le materie.» decisi di mentire, non era l'occasione giusta di rivelare che forse avevo preso la strada sbagliata. E poi, non lo sapeva nemmeno Jason.
«E tu Jason?»
«Io sono impiegato in un ufficio, non è il lavoro dei miei sogni ma paga l'affitto.» sorrise. Il vero sogno di Jason era diventare avvocato, abbandonato dopo non essere stato accettato a Yale.
«Perché non hai portato anche quel ragazzo, Sean?» intervenne mia sorella dal nulla e calò il silenzio.
Non sapevo cosa dire, mi trovavo estremamente in difficoltà e sentivo come se avessi una mano intorno al collo che impediva all'aria di passare; sentii una mano afferrare la mia da sotto il tavolo e capii subito che si trattava del mio amico.
«Non stiamo più insieme, ci siamo lasciati più di un mese fa.» dissi con freddezza.
«Oh avrei dovuto saperlo, scusami, è che con la scuola e la danza non ho mai tempo per stare dietro ai social.» provò a scusarsi, mortificata.
«Non importa.» sorrisi «Non si è comportato bene, quindi è meglio così.» terminai la discussione, anche se notai che mia zia mi stava fissando con uno sguardo strano.

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