Fu una settimana dopo che incontrai il mio amico Giuseppe Montani in edicola.
Lavorava lì da un mese circa. Dopo che il Sig. Gerioni aveva dovuto chiudere il suo negozio dove Giuseppe lavorava, il mio amico si era trovato senza lavoro, quindi dopo aver penato un po', dovette accettare la prima occasione che gli capitò: vendere giornali presso l'edicola del quartiere. Giuseppe, non appena mi vide mi fece un sorriso. "Vieni", mi disse, "ti offro un caffè". Il caffè al bar fu l'occasione per parlarmi e per sfogarsi. La chiusura del negozio dove lavorava fu, per lui, una vera tragedia. Si trovò senza lavoro, senza stipendio e con un mutuo sulle spalle. Gli vidi una lacrima solcare il viso, la sua fidanzata Luana lo aveva lasciato mandando all'aria i preparativi del loro matrimonio. Gli spiegò che senza lavoro non si poteva pensare di mantenere una famiglia e gli diede il benservito.
Uscì degli spiccioli per offrirmi il caffè, ma gli bloccai la mano, pagando io. Mi chiese scusa per essersi sfogato, ma mi confessò che negli ultimi mesi gli era crollato tutto il mondo addosso e che adesso era ridotto ad accettare lavori anche miseri pur di potersi pagare almeno il mutuo.
Lo guardai con lo sguardo impietrito, mi sentivo in parte coinvolto, in fondo avevo scoperto io il segreto del Sig. Gerioni ed era per colpa mia se il negozio era stato chiuso. Gli dissi che avrei fatto di tutto per aiutarlo, cercando un lavoro un po' più redditizio e lui mi abbracciò talmente forte da farmi quasi male. Era sull'orlo di un esaurimento nervoso, non lo avevo mai visto così giù di morale.
Non appena rientrai nel mio appartamento, per istinto, ripresi il binocolo e guardai in direzione dell'appartamento del sig. Gerioni. La casa era vuota e deserta. Guardai meglio attraverso l'altra finestra, quando scorsi la sagoma della moglie del sig. Gerioni che guardava fuori dalla finestra, fissa nella mia direzione. Sembrava come se mi stesse fissando.
Tolsi immediatamente lo sguardo dal binocolo, presi la cornetta del telefono e chiamai al sig. Fivetti, il proprietario della casa editrice. Gli chiesi la cortesia di poter inserire tra i suoi dipendenti il mio amico Giuseppe, un ragazzo volenteroso che aveva bisogno d'aiuto. Non mi rispose neanche chiedendomi invece a che punto ero arrivato con la composizione del libro. Io risposi di non aver nemmeno iniziato, e riproposi la mia richiesta di trovare un impiego al mio amico. Il sig. Fivetti mi spiegò che da quando aveva silurato il suo socio aveva iniziato un'opera di depurazione della società, cacciando via una decina di dipendenti che erano amici del suo ex-socio e non intendeva assumere, per il momento, nessun altro.
Con disappunto terminai la conversazione sbattendo i pugni sul tavolo.
Mi sentivo colpevole di aver fatto chiudere il negozio del sig. Gerioni ed aver messo sul lastrico sia il titolare che i dipendenti. Il mio gesto era stato sicuramente un gesto civile, giusto, onesto. La società mi ringraziò di aver assicurato un truffatore alla giustizia, ma quella stessa società stava sbattendo la porta in faccia al mio amico che non aveva nessuna colpa.
Mi impegnai ad aiutare comunque il mio amico. Con il contratto firmato con la casa editrice avrei fatto un grosso regalo in denaro a Giuseppe. In fondo fu merito suo se io diventai Hacker. Decisi di uscire un po' fuori e di fare una passeggiata per distrarmi da quello che stava diventando un pensiero fisso.
Andai nella villa comunale a ricercare silenzio e profumi d'erba e fiori. Mi sedetti in una panchina illuminata dal sole e mi esposi così, lasciandomi riscaldare il viso, ad occhi chiusi.
Non appena aprii gli occhi riconobbi, a circa venti metri da me, lo stesso ragazzo delinquente che avevo filmato mentre vendeva la roba rubata al sig. Gerioni.
Stesso sacco, stesso materiale, un'altra controparte.
Ebbi uno scattò dentro di me, mi volevo alzare, ma presto compresi quanto potesse essere inutile e ridicola qualsiasi reazione. Lo squillo del telefono cellulare mi fece sobbalzare distraendo i miei pensieri.
Era Adriana, la mia amica tradita dal marito. Parlava singhiozzando. Riuscii a malapena a capire che si trovava sulla strada statale, aveva posteggiato l'auto in una rientranza e stava camminando a piedi con in braccio il figlio.
Aveva deciso di chiudere con la sua vita. Aveva realizzato in un attimo il fallimento non solo della sua storia d'amore, ma di tutta la sua vita, di tutte le sue certezze, di tutto il suo mondo. Camminava in attesa di trovare la prima curva, poi, disse, si sarebbe messa seduta per terra dando le spalle alla curva ed alla prima macchina che, giungendo all'improvviso, avrebbe interrotto il supplizio che ormai da giorni stava vivendo.
Mi gelò il sangue, ma cercai di mantenere la calma. Capii subito di non aver il tempo di prendere l'auto e raggiungerla. Tentai dunque di persuaderla ad abbandonare l'ignobile proposito, se non altro per suo figlio e per la creatura che teneva in grembo. Sarebbe stata una vigliaccheria, una scelta egoistica far morire anche i propri figli. Loro colpa non ne avevano. Poi cercai di prendere tempo cercando di farmi spiegare i motivi che l'avevano portata a tale disperazione. Mi finsi incredulo, giurai di sapere tutto l'opposto, la convinsi del fatto che conoscevo retroscena che avrebbero discolpato Roberto. Avrei detto qualsiasi cosa pur di evitare che la situazione precipitasse.
La voce di Adriana si addolcì.
Quella donna cercava conferme, sperava che qualcuno le dicesse che si trovava a vivere in un incubo. Desiderava che qualcuno la svegliasse da quel brutto sogno. Voleva che qualcuno le mentisse.
Con una dolcezza indescrivibile mi comunicò di essersi seduta sull'asfalto. In braccio teneva ancora suo figlio che nel frattempo si era addormentato. "Grazie comunque Claudio, avevo bisogno di sentire una voce amica. Ho sbagliato tutto nella mia vita, ma la tua amicizia è stata l'unica cosa buona che ho avuto. Addio".
Adriana smise di parlare.
Probabilmente appoggiò il telefono cellulare per terra mentre io continuavo a gridarle di non fare sciocchezze, di pensare ai bambini, di pensare a me. Ebbi il tempo di ascoltare, tra i brividi, il rumore terribile di una forte frenata e di un forte botto.
Il monitor del mio computer visualizzava un foglio bianco. Irradiava di bianco il mio viso e tutta la stanza buia. Mi trovai davanti al computer e davanti alla composizione del mio primo libro.
A dire la verità avevo deciso di non scriverlo più questo libro, ma l'editore mi costrinse minacciandomi con il contratto che avevo sottoscritto tempo addietro e mi mise fretta, quindi decisi di iniziare. In testa, al centro, il titolo scelto dal mio editore: "Il perfetto hacker".
Forse la gente si aspettava qualcosa di diverso, ma io vi ho voluto semplicemente raccontare la mia esperienza, a voi il compito di giudicare e di capire.
Il Vostro Claudio T.
Postfazione:
Ciao, sono Antonio, l'autore del racconto.
Spero tu abbia gradito la storia e ti abbia lasciato qualcosa.
Se puoi, non dimenticare di votarmi, per me è importante,
Grazie!
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Il perfetto hacker
Kısa HikayeClaudio è un informatico al quale piace spiare. Entrare nelle case e nelle vite altrui è un piacere che aumenta sempre più, in modo proporzionale all'aumentare dell'aridità nella propria vita vuota. Quando si accorge che intorno a sé, tra gli amici...