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Se c'era una cosa che Evan, nel corso del tempo, aveva imparato era proprio che non era mai una scelta saggia immischiarsi nelle faccende di cuore altrui.

A differenza di suo marito, Keith, che davanti al binomio di "amico e guai" pareva non essere in grado di farsi da parte, mai.

Il loro, ormai, era un rapporto solido e l'uomo trovava assurdo che dovessero rischiare di metterlo in crisi soltanto per colpa del riflesso dei problemi dei loro amici.

Non era mancanza di affetto nei confronti di coloro che li circondavano; Evan, dal primo all'ultimo, ognuno con i suoi pregi e difetti, vedeva tutti gli amici, nessuno escluso – nemmeno Claud –, come parte importante e indispensabile all'interno di quell'ingranaggio complesso e variegato che era diventata la loro famiglia.
Soltanto... gli sarebbe piaciuto che fossero meno casinisti.

Si guardò intorno, tentando di riportare alla mente i ricordi della sera prima, arrivando, tuttavia, a un'unica conclusione: non aveva idea di dove si trovava.

"Ecco perché bisognerebbe imparare a farsi i fatti propri, ogni tanto" si disse, portandosi una mano a una tempia e strizzando gli occhi, "Ho bevuto?" si domandò, percependo l'acido salirgli in gola, riconoscendo gli inconfondibili sintomi di una sbronza colossale, "Amici, alcol e guai" aggiunse mentalmente, battendo un pugno contro la seduta del divano sul quale si era risvegliato, e quelle tre parole aumentarono a dismisura il suo sconforto.

Non piaceva, ad Evan, trovarsi in balia di situazioni ambigue, dove sentimenti e la casualità finivano per prevalere sulla ragione e sulla razionalità. Una cosa razionale era obiettiva, logica, inattaccabile – come lo era il suo amore per Keith.
L'amore era un sentimento, vero, ma in quel caso Evan lo vedeva colmo di una realtà profonda, qualcosa che nel tempo era diventato obiettivo e che lo aveva aiutato a mettere a tacere la parte irrazionale dei suoi sentimenti: la gelosia. Era una lezione che aveva imparato a proprie spese e sulla quale, nel tempo, aveva plasmato ogni decisione, ogni sua azione, nella speranza di non commettere più gli stessi errori.

Ma aveva fallito.

Proprio come in quell'occasione, e com'è che era finito per trascorrere una serata in casa di uno sconosciuto proprio non riusciva a ricordarlo – non avendo idea di dove si trovava e conoscendo bene, invece, i luoghi in cui vivevano i suoi amici, diede per scontato che quell'appartamento appartenesse a qualcuno che, appunto, non conosceva. Non beveva mai troppo, Evan, a eccezione di un paio di birre ogni tanto, solo per accompagnare la pizza oppure al termine di una giornata particolarmente stressante.

Non era abituato neanche a bere in compagnia, perché se non gli andava, non gli andava. Inutile insistere. Keith era persino astemio, perciò, l'ultimo anno al fianco del marito non aveva avuto neanche occasioni di acquistare alcolici mentre facevano la spesa insieme, perché Keith non prendeva neanche in conto l'esistenza del reparto dedicato nel supermercato.

Forse era a causa di quell'abitudine persa nel tempo – non che gli mancasse o la rimpiangesse – oppure perché di birre ne aveva bevute troppe, la sera prima – o almeno, immaginava di averlo fatto, dato che si sentiva da schifo – tanto che, arrivato a un certo punto, ne aveva perso persino il conto – si conosceva, sapeva di poter arrivare a due e continuare a tenerne il numero: soltanto andando oltre avrebbe potuto perdere coscienza delle proprie azioni.

E dire che Keith lavorava al Seraphim e lui bazzicava spesso nel locale gestito dal marito, dove non si faceva altro che bere e farsi intrattenere da aitanti giovani.

Eppure quella serata era arrivata del tutto inaspettata ed Evan si era trovato catapultato all'interno di una situazione, per lui, fuori dal comune.

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