Epilogo

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L'altra vita.

Busan, Corea del Sud.
2:56am.

Il Gwangan splende meravigliosamente stanotte. Mentre lo ammiro dalla grande vetrata sospesa nel vuoto, capisco ancora una volta per quale motivo venga soprannominato diamante. L'intera costruzione architettonica sembra più preziosa di tutti i soldi che abbia mai intascato disonestamente,  più preziosa di quanto la gente distrutta dalla vita possa offrirmi. Mi fa venir voglia di possederlo, di declamarlo come mio e di nessun altro. Guardarlo da questa distanza, fare in modo che le sue luci colorate si iniettino nella mia retina, è terapeutico. Mi sento quasi in pace.

Il ponte accoglie ed inghiotte in se stesso sia Haeundae che Suyeong. Pare che i due distretti vengano uniti dall'enorme gigante appariscente come se stessero facendo l'amore per la prima volta, ignari di tutto quello che gli sta attorno. Silenziosamente, il Gwangan serpeggia sopra l'acqua fredda come il ghiaccio e muta come la morte, ricordando a chiunque che qui è lui a comandare, a dettare leggi, a decidere quanto deve durare la notte e quando deve rinascere quel sole che egli stesso tanto odia. Perché i suoi raggi maledetti lo privano della sua bellezza, e il Gwangan è estremamente vanitoso.

Come una donna bellissima che si guarda allo specchio. Lui desidera tutto di tutti, lui scalpita e urla come un pazzo, lui pretende la notte perenne. Proprio come me.

Io e il Gwangan andiamo estremamente d'accordo. Sopratutto perché, quando parlo, lui se ne sta zitto senza giudicare, senza dire una sola parola che possa farmi domandare per quale assurdo motivo io sia rimasta qui. Perché mi ostini tanto a vivere. Forse neanche mi ascolta, ma a me è sempre andata bene così. Ha risvegliato ricordi che non provavo più da troppo tempo.

E solo una persona era stata capace di farlo.

Il tempo, quel bastardo. Non sa più dove sbattere la testa.

Ma cosa più importante, io non so più dove nascondermi.

«Soo Soo!»

Una voce mi chiama, avvicinandosi in un tempo fin troppo limitato, tanto che mi costringe a distogliere l'attenzione dal mio fidato confidente. Con sguardo vuoto, vedo Taehyung dirigersi verso di me. Infilando la sua Beretta 92 nella fondina sul braccio, le sue dita si muovono in automatico per spostargli i capelli dalla fronte. Da quando Jungkook è morto, il ragazzo aveva deciso di non  tagliarli più. Non ha mai detto a nessuno perché avesse preso quella decisione, ma è come se ogni giorno si sentisse meno pesante, come se il suo cuore avesse accettato la perenne perdita di uno dei suoi fratelli. Ha scaricato quell'insopportabile peso da qualche altra parte. Almeno, lui c'era riuscito.

«Stai bene? Abbiamo finito di là.» m'informa con aria tranquilla, muovendo la coda scura da una spalla all'altra. Guardo l'ondeggiare che compie la sua chioma, trovandomi pressoché invogliata a toccargliela. Alla fine però, non mi muovo. Resto con le mani apposto.

«E' tutto sistemato?» chiedo sospirando. Taehyung alza i pollici, sorridente. «Liscio come l'olio.» conferma «Questo casinò sembrava immenso, ma le persone che ci lavorano si sono rivelate dei ratti agili tanto quanto un cazzo di sgabello. E poi-»

Fermo il ragazzo poggiandogli una mano sulla bocca quando odo un fruscio oltre l'arco che da sulla sala principale. Appena noto un uomo che spunta improvvisamente nel mezzo dell'entrata, la mia mano scatta da sola verso la Desert Eagle. In un secondo mi metto davanti a Taehyung per coprilo, e in quello subito dopo ho già sparato al tizio. Il mio colpo è talmente preciso, che l'uomo cade all'indietro come fosse un palo di legno. Il suo corpo sobbalza sul pavimento in resina, un insetto in fin di vita. La cosa che mi convince, è non riscontrare più alcun tipo di movimento. Nessuna ribellione, nessuno sforzo. A quel punto, sono certa di aver fatto centro.

PINK GASOLINE ✓ [Jeon Jungkook]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora