Capitolo 2

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Wakatoshi

Guardo le gocce battere sulla finestra.

Il lenzuolo ruvido sfrega sul mio viso come mi copro fino a lasciare fuori solo gli occhi; il letto nella camerata è uguale agli altri, vecchio e cigolante e con le coperte consumate dai troppi lavaggi.

È notte. Fuori c'è un temporale.

Credo di essere l'unico sveglio a quest'ora, capita spesso ultimamente, la stanchezza delle membra in contrasto con il turbine di pensieri che mi attanaglia.

Non ne sono infastidito, sono comunque i miei pensieri che, piuttosto, mi aiutano ad elaborare tutti gli avvenimenti della giornata, le interazioni che ho avuto con le persone e le loro stesse reazioni.

Mentre mi faccio scorrere tutto ciò che è accaduto ormai ieri, mi soffermo su un'immagine che ho avuto modo di cogliere di sfuggita.

Un ragazzo, uno dei più giovani che lavorano qui, è arrivato trafelato spalancando le porte dell'ufficio del direttore, per poi chiudersi subito dentro con lui, come se dovesse riferire chissà quale notizia imperdibile.

In un modo o nell'altro devo essermi addormentato, perché è mattina ormai.

Tutti sono in gran fermento, specialmente i responsabili che si occupano di noi quotidianamente: oggi in visita c'è qualcuno di importante, dall'ultima volta che un esterno è arrivato qui è passato molto tempo e ricordo solamente lo stesso stato di agitazione generale; in ogni caso, tutti gli adulti sono in particolar modo gentili e molto attenti a ciò che dicono.

Non sono stupido, so che è per fare bella figura con chiunque debba arrivare.

Come se, con le voci gentili e gli sguardi amorevoli, possano indurci a credere siano sempre stati così. Non che ci trattassero male, però si sentiva nel loro comportamento la scocciatura derivata dall'obbligo morale di occuparsi di noi.

Come se non bastasse ognuno stamattina ha trovato, ai piedi del letto, vestiti nuovi e stirati: pantaloni o gonna marrone con una camicia bianca, calze pesanti e un paio di scarpe in pelle morbida. Se fino a ieri indossavamo vestiti che erano passati dai ragazzi più grandi a quelli più piccoli e 'riciclandoli' si erano consumati, oggi abbiamo una sorta di divisa mai vista prima.

Veniamo tutti allineati all'ingresso, con la raccomandazione di stare fermi e composti.

Sento una risata ovattata e un brontolio infastidito oltre al rumore della pioggia.

La porta si spalanca all'improvviso e devo ammettere che tutto mi sarei aspettato tranne che due ragazzi poco più grandi noi.

Uno è molto alto e magro, capelli rossi, pettinati per far in modo che puntino al cielo, e occhi grandi; una risata trattenuta nelle labbra sottili.
L'altro, invece, è più basso con capelli castani che gli coprono la fronte e un cipiglio in volto mentre cerca di scrollarsi quello che penso sia fango dalle scarpe.

Quando il direttore, vestito di tutto punto, si toglie il cappello e saluta con fare ossequioso, il rosso e il compagno si scambiano uno sguardo che non riesco a decifrare pienamente, ma credo si avvicini maggiormente allo scherno.

Si presentano.

Quello alto si chiama Tendō, l'altro Shirabu.

Hanno vestiti eleganti, sembrano quasi rigidi nelle cuciture definite e nei ricami dei panciotti, ma, dai rigonfiamenti delle armi che portano addosso, devono essere in realtà molto pratici.

- Ci ha mandati Washijō. Voi comportatevi come al solito. Tutti. Fate come se non ci fossimo, noi faremo un giro. - e così, con la voce ferma di chi non accetta obiezioni, Shirabu chiarisce ogni dubbio.

Washijō si potrebbe definire il nostro protettore.
Si assicura che tutti i ragazzi abbiano il necessario per vivere bene, porta contributi ai fondi dell'orfanotrofio e questo fa sì che anche la struttura sia sempre curata.
Inoltre, si preoccupa della paga di tutti coloro che lavorano nell'edificio, fornendola di tasca propria.

So però che non è quella che si definirebbe una brava persona.

Ho origliato la conversazione di due addetti alla cucina che parlavano credendo di non essere sentiti mentre sistemavano delle casse in magazzino.

In sintesi, sostenevano che il nostro benefattore facesse parte di un'organizzazione criminale e che non si sentivano al sicuro a lavorare per lui.

Questo spiegherebbe il denaro pressoché illimitato di cui ha a disposizione e la sola esistenza di questo posto, uno dei pochi orfanotrofi con una relativamente buona fama, senza bambini maltrattati o condizioni igieniche precarie.

Ha ormai smesso di piovere e sono in giardino con Tsutomu, lui steso sull'erba umida, gli occhi al cielo mentre cerca animali stilizzati nelle nuvole, la testa appoggiata alle radici di una grossa quercia, le braccia inermi lungo i fianchi.

Io sono impegnato a far cadere da un muretto, che una volta dev'essere stato un pozzo poi chiuso, delle latte di quelli che forse erano fagioli in scatola: sono armato di una fionda che mi sono costruito in un pomeriggio noioso e con assolutamente nulla da fare.

- Cinque - a ogni colpo andato a segno Tsu mormora un numero, tenendo il conto per me.
Sta per pronunciare 'otto' quando salta in piedi all'improvviso, allontanandosi in fretta.

Mi volto per cercare di capire il motivo di questa sua fuga: dei due visitatori, quello più alto, il rosso, si sta avvicinando.

- Perché il tuo amico è scappato? - chiede, sedendosi dove prima c'era il bambino dai capelli inchiostro.

- A Tsutomu non piacciono gli estranei - rispondo mettendomi in tasca la fionda.

- Ah capisco, a te invece? Piacciono gli estranei? - i suoi grandi occhi mi fissano curiosi.

Noto solo ora che l'iride è rossa come i suoi capelli.

Ora che ci penso anche io sono piuttosto schivo e mi tengo alla larga da persone nuove, ma da quando l'avevo visto, nell'atrio, avevo provato una strana sensazione di familiarità, come se lo conoscessi da tutta la vita.

Mi sta ancora guardando, ma non mi sento sotto pressione, so che sta aspettando una risposta, so che sta aspettando riordini le idee, so che sta aspettando me, come lo facesse da tutta la vita; lo so e basta, lo sento dentro.

Le palpebre gli sono abbassate, come se gli facessero male gli occhi ma vorrebbe continuare a tenermi nel suo campo visivo.

- Di solito mi tengo alla larga. Con te no, è diverso. - decido di essere sincero, che non mi nuocerà.

Mi guarda, sembra quasi scettico, poi il suo volto si apre in sorriso caldo.

- Come ti chiami? -

- Wakatoshi - ancora una volta sento che è giusto dire la verità.

- Beh, piacere di conoscerti Toshi. - gli occhi ancora a mezz'asta, le labbra allungate in quella che definirei soddisfazione.

Rimaniamo così in silenzio, io che continuo a colpire lattine, lui che mi guarda, ma non c'è imbarazzo tra noi, sono a mio agio.

Sarà passata qualche ora, adesso quasi tutti i ragazzi sono in giardino, sento Tendō muoversi: si è alzato e sta agitando un braccio verso le porte principali dell'orfanotrofio.

- Bu! - grida.

In lontananza vedo Tsutomu uscire dalla struttura, parlare e seguire l'altro ragazzo venuto in visita, che si guarda attorno con la faccia scura.

Finalmente Shirabu ci vede e coglie l'occasione per seminare il mio povero compagno e correre qui.

- Dove cazzo eri? - le prime amichevoli parole che pronuncia.

Tendō non risponde, si esibisce anzi in una risatina e si dirige verso la loro auto, il più basso al seguito.

𝐶𝑜𝑚𝑒 𝑔𝑜𝑐𝑐𝑒 𝑑𝑖 𝑝𝑖𝑜𝑔𝑔𝑖𝑎 [ushiten]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora